martedì 25 maggio 2010

Il consulente del lavoro (o i sogni son desideri…)


Ieri sera sono rimasta d'accordo con le mie colleghe che avrei potuto lavorare da casa oggi. E’ un periodo in cui ci sono molte cose da fare ma tutte più o meno gestibili separatamente e non per forza dall’ufficio.
Verso mezzanotte, con una spalla dolorante dopo la mia seconda serata di arrampicata, mi inerpico sul soppalco, rito della crema, un po’ di Murakami e poi ecco Morfeo.
Come sempre non fila tutto liscio: caldo, brividi, coliche, rumori, pipì, sete, fianco sinistro, ma niente fianco destro perché il tricipite tira…Tra un tormento e l’altro però dormo. E sogno. Almeno tre volte, almeno tre sogni diversi. Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, come a un matrimonio. Fondamentale il tema dell’acqua, saranno le mie letture giapponesi di primavera ma in tutti e tre i sogni o pioveva o c’erano terme, piscine, bagni pubblici, rubinetti.
Il sogno più buffo però è stato sicuramente l’ultimo (o almeno quello che mi pare di aver fatto dopo la metà della notte).

Era mattina presto e mi arrivava un sms dalle mie colleghe che, per qualche intoppo e impegno improvviso mi informavano che dovevo andare in ufficio nonostante gli ultimi accordi. Mi vestivo e uscivo dalla sorta di capannone-campus in cui vivevo, molto più simile alla palestra di arrampicata in cui vado che a qualunque tipo di abitazione.
Fuori dal portone mi aspettavano le altre, che parlavano a bassa voce tra loro senza condividere con me le loro chiacchiere: mi arrabbiavo e chiedevo spiegazioni. L’unico risultato era un sorriso e un “No niente, parlavamo di altre cose, non di te. Andiamo in ufficio così vedi le novità”. Io mi incammino, staccata da loro, telefono a Giacomo e gli spiego che sta succedendo qualcosa che non capisco, che sono angosciata e che non se ne parla di andare in vacanza prima che questa strana sensazione mi sia passata. Lui protesta e io lancio con forza il cellulare in una pozzanghera, mi avvicino con i miei stivali di gomma rossi, l’ombrello rosso, il cappuccio in testa e guardo tutti i pezzi di plastica che galleggiano sull’acqua.
Mi volto e seguo le altre fino all’ufficio, lì ci sono il Prof, una mia compagna di liceo e un ragazzo mai visto prima, girato di schiena sulla sedia di stoffa blu. La stanza però non è la solita, ma è la camera di Alessia, la mia più grande amica di infanzia; la attraverso e vado di fronte al signore seduto. Lui si volta, ha un viso conosciuto e uno sguardo dolce, non riesco però a capire chi sia nonostante mi ispiri tantissima fiducia. Mi prende subito le braccia, una per una e mi risvolta le maniche del Montgomery, poi mi fa sedere su di lui e mi comincia a parlare in francese.. Io gli appoggio la testa sulla spalla mentre lui mi accarezza la testa, la schiena e mi chiede cosa provo. Sono stupita, mi viene da piangere ma nello stesso tempo sono rilassata come mai in vita mia, perciò gli dico che sono tranquilla, che mi fa stare bene e che sono molto stanca. Allora mi fa sdraiare, sul fianco destro (la spalla non mi fa male!) e lui fa altrettanto, guardandomi sempre negli occhi e accarezzandomi il viso. Continua a chiedermi di parlare, di lasciarmi andare e di dirgli cosa sento, io rispondo che sto benissimo, ma questa a lui sembra una cosa strana: le mie colleghe però dicono che lo sapevano che avrei reagito così, che chiamare uno come lui avrebbe fatto solo che bene alla mia tranquillità. Io sono confusa, come quando ci si sente anestetizzati da un bagno caldo in inverno, tengo gli occhi chiusi, ripeto che sono rilassata, mentre il misterioso ragazzo mi sussurra “Really?”.

A questo punto me lo chiedo anche io: “Really?”

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