martedì 31 dicembre 2013

Duemilaquattordici

Ultimo giorno dell'anno, in cucina c'è una bella luce e in sala il cristallo appeso alla finestra riflette decine di arcobaleni che incantano la gatta. Mamma fa fare i compiti a Christian che appena la vede con la tazzina di caffè in mano si preoccupa che abbia fatto colazione, è un bambino dolce Christian. I biscotti di farina di riso della Fra sono buonissimi e nonostante la nausea li mangio volentieri, mentre mi metto ancora una volta nell'ottica di scrivere questa diavolo di tesi.
Continuo a leggere post di bilanci, conclusioni, wishlists e speranze ma resisto ed evito di martellarmi il cervello con i miei obiettivi non raggiunti, da raggiungere o superati (questi ultimi, del resto, non li riesco a vedere). Ci sono cose belle nel 2013 che se ne va, ci sono piccole bolle di sapone dove sono riuscita a infilarmi e c'è una grande fortuna che mi ha accompagnato tutto l'anno: la mia casa sull'albero. Non so se ho mai spiegato qui il perché tra queste pagine venisse spesso fuori quella parola maiuscola e corsiva, l'Albero appunto, colgo l'occasione per farlo adesso. Il piccolo appartamento dove sono andata a vivere alla fine del 2012 è pieno di legno: c'è il parquet in ogni stanza, l'armadio vecchio e scuro del nonno, il tavolo da osteria nella cucina, la sedia a dondolo accanto al divano, il piccolo tavolino al posto della scrivania.
Nella mia casa c'è una parete verde alle spalle di chi dorme, ci sono piante appese e piante appoggiate, piante in serra (una mini serra di vetro posata sul frigo) e piante che colano in Vico di Coccagna. Ci sono i vasi sulla finestra del bagno, che è profonda e ospita i fiori che non si sentono tanto bene, ci sono i rami secchi che fanno ridere Andrea e la ghirlanda di fiori appassiti che dondola sotto alla mensola dei libri di botanica.
La mia casa è come un albero, un Albero della Coccagna, perché qui trovo pace e rifugio, anche quando mi sento lontana dalle mie stesse scelte. Il lettone comodo mi ospita per mangiare, dormire, leggere, studiare, scrivere e fare l'amore. Il gatto di carta attaccato ai vetri della cucina tiene compagnia a quello vero della finestra di fronte, mentre la radio suona ininterrotta e l'ennesima tisana fuma sul piano in muratura accanto al lavandino. La dispensa è chiusa solo da una tenda, con grandi alberi verdi disegnati, mentre in sala c'è la foto in infrarossi degli "alberi bianchi" di Villa Pallavicini, c'è il libro Raccontare gli Alberi che fa bella mostra di sé, ci sono l'albero di plastica posato sul muretto, quello di argilla e legno del Signor Sergio e quello piccolo da portare al dito arrivato diretto dalla Turchia. Per tutti questi motivi e perché stare a casa è per me come stare in un nido, io chiamo quel posto l'Albero, nella speranza che ci sia sempre spazio per tutti, per chi passa un attimo per poi volare via, per chi si ferma a mangiare qualcosa, per chi cerca un rifugio dove dormire e per chi ogni tanto vorrà condividere la mia tana. Quindi un buon augurio per il 2014 penso possa essere, per tutti, quello di trovare il proprio posto nel mondo, un luogo di cui avere nostalgia. A modo mio vi auguro buon anno con due link:
questo (che penso sarà uno dei primi acquisti 2014!)
e questo (che si conclude con la frase più appropriata che potessi trovare "...a song for someone who needs somewhere to long for homesick because I no longer know where home is")

sabato 28 dicembre 2013

And if you're still bleeding, you're the lucky ones

Colonna Sonora (scelta semplicemente perché i Daughter, insieme ai Beach House credo che siano la band che ho ascoltato di più in questo 2013, con ben due concerti visti e un sacco di lacrime versate, come al mio solito!)
Siamo alla fine dell'anno, giorni di tradizione: datteri ripieni di mascarpone, scambio dei regali, corse dal medico con somatizzazioni da manuale, lunghe ore di riposo, nebbiolina leggera, post di bilanci e propositi.
Ma questa volta mi frego, cinque pastiglie al giorno sono sufficienti per decidere che no, non mi guardo indietro e non cerco cosa ha funzionato e cosa si è inceppato. In verità non voglio neppure cercare nel domani, non mi interessa. Cazzate. Mi interessa eccome ma non ne ho la forza. Sto leggendo un libro, L'Orologiaio Miope di Lisa Signorile, un saggio sull'evoluzione di animali che vivono in posti estremi e sulle strategie di sopravvivenza raffinate negli anni per migliorarsi e riuscire a farcela in questo mondo di merda. Ecco, non guardare indietro e non guardare avanti è, per me, una strategia di sopravvivenza.
So che mi ero ripromessa di guidare, leggere, studiare, parlare, volermi bene...lo so perché mi conosco, ogni anno è così e ogni anno, puntualmente, mi deludo caricando i futuri dodici mesi di aspettative che so solo io, che condivido solo con me (perché ok che ne scrivo qui, ma cosa significa? A cosa serve?) e che immancabilmente disattendo alla fine dell'anno successivo. E vai di delusione al cubo.
Quindi per questa volta non scrivo nulla, anzi, mi concedo un solo obiettivo, non tanto da raggiungere quanto da perseguire ogni giorno: fare cose che mi fanno stare bene ogni volta che ne ho la possibilità.
Dal lavoro non si scappa e così dalle sue responsabilità, ingiustizie, fatiche.
Gli stronzi ci sono sempre, sempre ci saranno e le persone, anche quelle che credevi più vicine, più leali, più importanti possono fregarti in un attimo (questo non lo dimentico mai per fortuna, solo ogni tanto, quando sono stanca, debole o stranamente ottimista, tendo ad assumere la posizione della squadretta da educazione tecnica).
I problemi di salute propri e degli affetti non si cancellano, spesso non si possono prevedere, di solito arrivano e basta. Di solito ma non nel mio caso: io me li faccio venire. E il mono proposito di quest'anno dovrebbe (si spera) ovviare un poco anche a questa tendenza, perché una persona che sta bene e che insegue il benessere magari tenderà a massacrarsi di morbi psicosomatici un tantino meno.
L'incertezza economica, strettamente legata al punto sul lavoro, sarà lontana ancora per tutto il 2014, ma in questo anno dovrò darmi da fare per garantirmi un minimo di serenità futura...don't worry adesso, ci si penserà da febbraio, chiuso l'incubo dottorato.
Visto che lo sento l'istinto a progettare, programmare, rimproverare rimproverarmi, prevedere, scuotere la testa, lo chiudo qua questo insolito post di fine anno, prendendo in prestito un pezzo della colonna sonora segnalata all'inizio, che mi serva per riflettere ancora una volta sugli errori da non fare, sulle cose importanti da ricordare, sul bene che ci dobbiamo volere.

"Shadows settle on the place, that you left.
Our minds are troubled by the emptiness.
Destroy the middle, it's a waste of time.
From the perfect start to the finish line.
And if you're still breathing, you're the lucky ones.
'Cause most of us are heaving through corrupted lungs.
Setting fire to our insides for fun
Collecting names of the lovers that went wrong
The lovers that went wrong.
We are the reckless,
We are the wild youth
Chasing visions of our futures
One day we'll reveal the truth
That one will die before he gets there.
And if you're still bleeding, you're the lucky ones..."


Buon Duemilaquattordici

martedì 24 dicembre 2013

La bicicletta verde

E' la Vigilia di Natale, quest'anno sono da mamma.
Ho passato il pomeriggio a incartare regali e a dormicchiare sotto al piumone, con la gatta sui piedi.
Devo rimettermi a scrivere la tesi più velocemente possibile, il doppio laboratorio nel weekend con blog da aggiornare e foto da sistemare mi ha assorbito tempo ed energie.
Domani ravioli con la carne da sugo, spumante e chissà, magari la solita buonissima insalata russa del vicino.
Io, nel frattempo, sto malissimo, che così male era tempo che non stavo. Non ne scriverò, perché sono spaventata, sono poco lucida (per nulla lucida, in verità), perché oggi va un pochino meglio di ieri, perché magari è solo che mi sono tenuta troppe cose dentro, perché sto mangiando a bomba tutto quello che fino a poco tempo fa evitavo, perché è Natale, perché sono in ritardo su tutto, perché boh, è così.
Quindi cerco di vivermi bene questa serata, pensando che ieri ho mantenuto fede al punto D---D: la gioia vuole essere condivisa, amata e io l'ho fatto, ho condiviso e amato la gioia di chi mi sta vicino con rispetto, affetto, severità e coraggio.
Valli fredde, nebbia leggera, neve a bordo strada e qua e là tra i cigli erbosi, profumo di legna bruciata e di terra bagnata, macchine stracolme che viaggiano senza paura, biciclette verdi.
Non ho ancora avuto la voglia, la forza, di aprire il post 2012 sui propositi per l'anno nuovo, perché come sempre ho saputo rimuovere e ricordo appena ciò che ho scritto. Chissà se mi deluderò, se scoprirò che ho fatto tanto, che ho fatto bene, che ho fatto. So per certo di aver provato, quello sì, a fare meglio, ad essere meglio per gli altri e per me, ma su questo ultimo punto non sono ancora tanto brava: alla soglia dei trentadue anni in arrivo tra poco più di sette giorni non mi pare un grande risultato.
Non sarà però questo un post di bilanci, per quello voglio attendere la vera fine dell'anno, né sarà un post di lamentele, paure, riflessioni amare e tristezze. Impiego già sufficienti energie per rovinare a me e ai miei cari il Natale così vicino, credo sia giusto cercare, almeno qui nel mio sfogo abituale, di vedere al di là della malattia, della morte, della follia, del tempo che va via.
Io in questi giorni sono stata felice, felice della felicità altrui, felice per una bicicletta verde, per un presepe bellissimo dove ci sono addirittura piccole ceste piene di bambole ancora più piccole, felice per le foto del bimbo nato da poco, felice per la gatta che sta meglio e ha scelto il mio poncho di lana per i suoi riposini. E' una grande fortuna potere e sapere essere felici per gli altri, facendo diventare tua una gioia che non parte da te e non fa parte di te.
Credo di dover pensare a questo ora, lo faccio perché so che è la cosa giusta e perché non ho molte alternative, lo faccio anche perché magari così mi sveglierò e tutto mi sembrerà più semplice e raggiungibile.
Quindi, mettiamola così, invece di riflettere sui buoni propositi 2013 e 2014 pensiamo a domani, anzi, a stasera, che è già più che sufficiente.
Auguri.




giovedì 19 dicembre 2013

Una dose massiccia di vita

Oggi ho scoperto una cosa importantissima, che non sapevo o forse sì, ma che non ero in grado di fissare, a cui non ho mai dato un nome.
Oggi ho scoperto che i quattro sentimenti, quelli grandi e veri, hanno bisogno di una risposta altrettanto grande e vera e soprattutto precisa.
Rabbia, Paura, Tristezza, Gioia.
Cosa buona e giusta sarebbe intanto riconoscerli, sti sentimenti. Quando arrivano, quando vogliono uscire, quando un amico li sta provando, quando l'uomo della nostra vita è triste, quando la sorella è felice, quando siamo arrabbiati.
Io sono un disastro a riconoscerli, o anzi, faccio una cosa ancora peggiore: quando li riconosco li evito. Come l'HIV.
Non li tiro fuori, li nego a me stessa, li nascondo il più possibile agli altri e di solito ci riesco bene. Negli anni sono molto migliorata, ci sono persone a cui non posso assolutamente mentire, che mi leggono dentro e vedono che qualcosa non va, ci sono amici che mi conoscono, c'è mia mamma che sa come sono fatta, ma poco importa finché sarò bravissima a ingannare me stessa.
Ecco quindi che oggi ho scoperto che non solo è importante accogliere questi quattro cavalieri mascherati, ma che è importante pure essere ospitali con loro nel modo giusto. Faccio un esempio: abbiamo lavorato tutto il giorno, siamo andati in palestra, sono le 20.30 e andiamo a cena. Cosa ci servono nel piatto? Un'insalata semplice e una macedonia fresca. INUTILI.
Inutili tanto quanto: Andiamo a scuola, prendiamo un voto pessimo anche se abbiamo studiato tanto. Siamo arrabbiati, ci sentiamo ingiustamente valutati, arriviamo a casa e mamma dice "Ma cosa ti ha chiesto? Ma cosa hai risposto? Beh, però potevi dire meglio, se avessi introdotto quel concetto forse...se avessi approfondito quel capitolo magari...".
Ogni sentimento ha bisogno di una risposta precisa, per essere registrato, compreso e vissuto.
La rabbia vuole attenzione, deve essere ascoltata, vista.
La paura vuole comprensione, deve essere capita, abbracciata.
La tristezza vuole consolazione, deve essere coccolata, curata.
La gioia vuole condivisione, deve essere festeggiata, amata.

Io queste cose le ho sempre guardate negli altri, credo di essere un'amica discreta (in tutti i sensi) proprio perché abbastanza incline all'accoglienza, all'empatia, alla capacità di ascoltare un amico arrabbiato, di aiutare un'amica spaventata, di accarezzare un affetto triste e di fare i salti di gioia per le conquiste altrui.
Però, tutta questa grande capacità di risposta svanisce quando si tratta di me.
Negli ultimi giorni sono rimasta delusa e ho somatizzato (spero, perché al solito il mio cervello pensa ad altro) mostruosamente e in maniera pure piuttosto chiara ed evidente, proprio perché non ho saputo accogliere e buttare fuori la rabbia, in assoluto il sentimento che mi rifiuto maggiormente di provare, insieme alla gioia. Per quanto riguarda la paura, invece, sono maestra: la sento spesso, spessissimo, in maniera del tutto irrazionale, dannosa e fuori luogo. Non temo cose che ad altri farebbero cadere i capelli, affronto prove dure, di quelle toste e faticose, ma annego in un bicchier d'acqua perché da sola lo trasformo in un lago profondissimo.
La tristezza, invece, ogni tanto arriva e io quando posso mi sposto un po' più in là. A volte la confondo con la paura, a volte mi ci immergo come mi immergo nel piumone (in senso letterale: "Sono triste? Mi butto a letto"), a volte, molto raramente, la ascolto e me ne prendo cura.
Oggi però aver capito questi passaggi è stato utile, mi ha permesso di comprendere perché il senso di frustrazione e di irrisolto mi facesse visita anche quando mi pareva di aver risposto a un mio sentimento. Se si utilizza la reazione sbagliata, per esempio rispondendo alla rabbia comportandoci come se fossimo tristi, non riusciremo mai a superare il momento della difficoltà, ma anzi ci avvilupperemo in un groviglio di ansie, paure, paranoie e ossessioni difficilmente affrontabili.
Quindi, il prossimo grande passo potrebbe essere quello di accoppiare la carta A con la sua gemella, come in quei vecchi giochi da bambini in cui, inutile dirlo, sono sempre stata una frana.



martedì 17 dicembre 2013

I am enough

La presentazione di ieri è andata bene, seppure fossi meno preoccupata del previsto era comunque un passo da fare, e l'ho fatto. Mancano solo la consegna della tesi e l'esame finale, poi anche questo capitolo sarà chiuso.
Oggi quindi me la sono presa con un po' più di calma, salto dal medico stamattina, spesa veloce, tesi. Avevo anche pensato di andare a stretching alle cinque, ma poi mi sono persa, sto procedendo a rilento e preferisco prendermi tutto il tempo che mi serve, senza corse inutili.
Nella pausa caffè, gironzolando in rete, mi sono imbattuta in un video. Un cartone animato sulla differenza tra empatia e simpatia uscito su Internazionale. Carino. Poi però ne ho letto la provenienza e ho visto che era collegato ad un TED di Brené Brown, una ricercatrice dei rapporti umani che sulla home del suo blog scrive "Maybe stories are just data with a soul". Venti minuti, che non sono tanti ma neppure pochi. Ho pensato "Ok, lo vedrò, ora ho da fare"...però il titolo (Il potere della vulnerabilità ) è venuto a punzecchiarmi gli alluci per una buona mezz'ora, mentre cercavo di orientarmi tra spettri XRF e microfotografie.
E allora vabbè, al diavolo, vediamolo, mi sono detta. E l'ho visto, con iniziale piacere perché lei è davvero in gamba, è simpatica, preparata, regge benissimo la telecamera, è chiara e mai banale. Poi verso la metà del discorso le sue parole cominciano a spingermi, mi entrano dentro e improvvisamente mi raccontano, nel senso che raccontano me stessa, i miei dati con anima annessa. Spiegano a tutti la lunga analisi dalla psicoterapeuta, le interminabili e bellissime serate a parlare sull'auto azzurra, le notti insonni, l'attesa davanti al telefono, le travi sul soffitto.
Credo che questo intervento sia così illuminante e fondamentale, pur essendo anche ovvio probabilmente e per molti scontato o addirittura noioso, che dovrebbe essere proiettato a scuola e che tutti dovrebbero guardarlo almeno una volta nella vita.
Io lo metto qui sotto e vi consiglio davvero di darci un'occhiata, per una volta non ho pianto davanti alle gioie di una nascita, alle storie d'amore di un film, alle avventure di un animaletto coraggioso...per una volta mi sono commossa (e quanto!) davanti alla mia vita. Perché I am enough.
Brené Brown: Il potere della vulnerabilità.

domenica 15 dicembre 2013

Nuovi semi

Post serale, dopo più di una settimana dall'ultimo. Cosa è successo? Nulla, ho dovuto semplicemente scrivere altro. Accantonata la tesi per un attimo, mi sono dedicata alla preparazione della presentazione di domani pomeriggio: l'avanzamento del terzo anno di dottorato. Ho finito l'ultima slide dieci minuti fa, stasera non si ripete, mi addormenterei sicuramente. Visto che la riunione sarà alle quattro avrò tutto il tempo prima per cronometrarmi e ascoltarmi all'infinito, quindi ora mi regalo un po' di relax pre sonno, giusto per concludere la domenica in tranquillità.
E' stata una settimana impegnativa, soprattutto emotivamente, iniziata con una gioia gigante: una nascita! E' arrivato tra noi un piccolo uomo, aspettato con pazienza proprio fino al giorno della scadenza prevista e coccolato per nove mesi da un grande gruppo di vicini di casa affettuosi. Questa sera sono andata a trovarlo, a portargli la famosa scatola, un contenitore di cartone dove ho raccolto un po' di regali per lui, per la mamma, per il papà e pure per il cane, impacchettati pian piano nel corso di tutta la gravidanza. Qualche settimana fa avevo per caso trovato questo articolo e avevo subito pensato che il mio dono somigliasse al contributo del governo finlandese, tanto che ormai la scatola di cartone è diventata per tutti l'omaggio dalla Finlandia.
Dopo il lunedì di gioia sono trascorsi giorni di scrittura, come dicevo all'inizio: il blog di Scuola di Robotica, la presentazione di domani, un paio di pagine per un sito da riguardare al volo, la tesi e le solite duecento email. Impegni di lavoro pure la sera, pomeriggi faticosi a guardarmi dentro e via di corsa verso il week end, dove ho potuto rallentare, comprare qualche regalo per Natale, andare a trovare mamma, tagliarmi i capelli, chiacchierare a lungo, dormire un po' e concludere questi sette giorni con i respiri delicati di un bimbo che sogna.
Ora è tardi, ho bisogno di infilare il pigiama, chiudere la porta, posare come al solito il mazzo di chiavi sul piatto egiziano dei nonni, lavare i denti, leggere un paio di pagine del romanzo in dirittura d'arrivo e chiudere gli occhi. Domani ci sarà un altro passo, un nuovo seme, un avanzamento in ogni caso, che sia davvero avanti o che sia un salto indietro.
Buonanotte...

sabato 7 dicembre 2013

Basta un poco di zenzero...

Direbbe Mary Poppins. Oggi lo dico io, perché in effetti, in questa giornata di tesi, tesi e ancora tesi, prepararmi la cena di stasera mi ha dato una scusa per alzarmi dalla postazione di lavoro, una complessa struttura di cuscini, vassoi, libri, computer, quaderni e vari caricabatterie che ha trasformato il mio letto in un ufficio, con buona pace di chi inorridisce solo al pensiero che si possa studiare sotto al piumone.
Fuori dalle coperte ho freddo, la mia lotta con il termostato che vive di vita propria e che la notte si autoprogramma a meno otto gradi non è ancora conclusa, perciò preferisco starmene qui, come in Campopisano mi appollaiavo sulla tana soppalcata a scrivere articoli e leggere racconti.
Per pranzo ho mangiato un hamburger veg (soia verdure e cose simili credo) con una manciata di riso in bianco, ma il mal di stomaco in questi giorni vince sui pasti leggeri, troppo deboli per contrastare il pieno di glutine e lieviti che sono costretta a fare in vista degli esami. Quindi la cena l'ho preparata nel tentativo di riposare la pancia e ho cercato il poco che la tundra nel mio frigo poteva offrirmi: patate, cavoli, cipolle. Meglio di un quadro di Van Gogh sull'indigenza della classe contadina.
Con quello che avevo a disposizione ho optato per una zuppa, anzi, una vellutata...che fa più radical chic.
Dopo mesi di assenza dal blog, metto qua sotto una mini ricetta, dalla facilità imbarazzante.

Ingredienti (per una persona):
- 1 patata
- 1 scalogno
- 1 cavolfiore piccolo
- pepe
- sale
- zenzero in polvere

Procedimento:
Cuocere la patata fatta a pezzi, il cuore bianco del cavolfiore, lo scalogno in una pentola d'acqua bollente (e salata) fino a che la forchetta riesce a bucare le patate con facilità. Eliminare quasi tutta l'acqua e continuare a cuocere ancora un poco a fuoco vivo. Aggiungere pepe e zenzero quanto piace (a me piace, ma con parsimonia). Frullare tutto con il minipimer a immersione fino ad ottenere una crema pannosa e soffice. Io penso la mangerò con del pane nero e un filo d'olio sopra.

Difficoltà: facilissimissima
Cottura: tra il bollore dell'acqua e tutto il resto ci vorrà una mezz'ora massimo
Costo ingredienti: quasi nullo




domenica 1 dicembre 2013

A forza di essere vento

Fino a due minuti fa Agata sonnecchiava sulle mie ginocchia. Sono da mamma, è domenica, primo giorno dell'ultimo mese. Da ieri c'è un vento che porta via, sono uscita pochissimo questo fine settimana, reduce dalla febbre ho preferito riposare. L'idea, per questo pomeriggio alle porte, è scrivere un po' di tesi...come al solito mille altre cose prendono il sopravvento sui buoni propositi e persino il post su ilmareingiardino ha la precedenza.
Ho male al collo, forte. Mi spavento, soprattutto la sera, ma mi aggrappo al briciolo di razionalità che mi resta dopo il tramonto per non andare in paranoia, così il sonno anche questa volta non è mancato e sono riuscita a dormire a lungo. Ho sognato un fiume, una ragazza straniera con i riccioli biondi, una casa che non conosco, un affetto che non ho più e, soprattutto, ho sognato alberi. Mi sembravano cercis siliquastrum, dalle foglie, ma non ci giurerei. Ricordo che stavo lì, sulla spiaggetta di ciottoli vicino all'acqua che scorreva veloce e cercavo di fotografare grappoli di rami in controluce. Il cellulare faceva cilecca e ogni volta che scattavo le foglie del mio albero avevano cambiato colore, prima tutte rosa, poi verdi e viola, poi rosse, gialle, fucsia e azzurre. Parevano palloncini colorati, forse lo erano, ed è buffo, pensandoci adesso, che abbia sognato l'albero di Giuda (detto anche albero dell'amore) così pieno di sfumature, con le sue foglie cuoriformi ognuna di un colore diverso, a seconda del vento.
Un vento che in questi giorni, come si diceva all'inizio, è forte, è freddo, alza la superficie del mare come fosse un torrente veloce e non rallenta mai.
Ho iniziato un libro nuovo, Verde Brillante s'intitola, e come sottotitolo ha "Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale". Per ora mi piace, un punto di vista nuovo su quello che ho sempre sostenuto, senza saperlo davvero. Io non sono vegana e neppure vegetariana. Le attenzioni alimentari che ho (a parte il delirio di diete e intolleranze degli ultimi mesi) sono sempre state accorgimenti di stampo egoista: non evito il pollo perché "povero pollo", né scelgo la carne di provenienza certa (= del contadino dietro casa o dell'allevatore che conosco) perché "povero vitello", prendo queste decisioni principalmente per la mia salute e per quella del pianeta in generale. Ho la fortuna di poter comprare le uova bio (e per bio intendo dei ragazzi del gas a cui mamma ordina le verdure) o, addirittura, di averle gratis dalle galline di mio zio. Sono privilegiata a potermi permettere una fettina di carne buona, allevata allo stato brado e non gonfia di ormoni, piena di coloranti e proveniente da un essere nato cresciuto vissuto e morto nella sporcizia, nella paura, nel dolore, nel buio e nella costrizione. Certo che ho a cuore cosa sente una mucca, cosa pensa un maiale, cosa provano un pulcino, una scrofa, un agnello e un fagiano, ma non sono così coerente nella vita, non faccio abbastanza attenzione, tutti i giorni, ai vestiti che compro (spesso confezionati dalle mani di un essere nato cresciuto vissuto e morto nella sporcizia, nella paura, nel dolore, nel buio e nella costrizione), agli oggetti con cui arredo casa, alle piccole scelte quotidiane che purtroppo non sempre sono all'altezza del mio predicare bene.
Nel libro che sto leggendo per ora sono arrivata al capitolo sulla vista delle piante, uno dei molti sensi che queste meraviglie naturali hanno a disposizione. Oltre alla vista hanno anche i quattro sensi rimasti, come li abbiamo noi, più un'infinità di altri, indispensabili per svilupparsi, crescere e lottare non avendo la possibilità di muoversi, spostarsi e fuggire. Le piante non sono mica così stupide da concentrare quasi tutti gli organi di senso in un solo punto, il medesimo punto dove sta il centro di controllo di questi stessi organi...chi mai lo farebbe? L'uomo, per esempio (e molti altri animali). Nella testa noi teniamo le orecchie, il naso, la bocca, gli occhi e il cervello: bastano dunque una sprangata, una zuccata seria, un cancro, una bella meningite e via, tanti saluti. Se invece, io pianta, incontro un ruminante di passaggio, magari pure parecchio affamato, che mi mangiucchia tutto il verde...probabilmente non morirò, anzi, ricrescerò ancora più rigogliosa. E quindi, nelle mie idee alimentari e non, nelle decisioni che io mammifero onnivoro e comodo prendo ogni giorno, per ora preferisco mettere insieme l'acquisto di carta ecologica all'assenza di carne avicola dal mio piatto (per lo meno finché non troverò un rivenditore che mi farà ricredere), unire la scelta di detersivi biologici alla spina a quella di acquistare olio e riso da cascine familiari con un concetto etico di produzione e distribuzione, affiancare l'abitudine di comprare pasta, caffè e cioccolata da organizzazioni eque e con una storia critica alle spalle al tentativo di privilegiare frutta e verdura a Km 0, vino buono da "niente mal di testa", spesa al mercato con poco imballaggio piuttosto che al super. Perchè in qualche modo sento che la mia impronta ecologica, sicuramente pesante e dannosa, può alleggerirsi un poco se il mio pensiero ha una partenza ampia, un abbraccio grande, seppur costruito su gesti piccolissimi, scelte minime e quotidiane, istinti verdi arrivati pian piano, crescendo.
Poi però sono mortale, mangio sushi se mi va, compro magliette economiche per la vita di tutti i giorni, ho un cellulare e un computer Samsung e lo shampoo proprio no, non riesco a comprarlo biologico perché mi fa sembrare i capelli uno sputo di mucca.
E' diventato un post impegnato, volevo solo scrivere qualcosa su questo libro piccolo, in carta riciclata, che mi porterò dietro per un po' e che mi fa volere più bene a un geranio che a un picchio. Forse, però, il fatto che mi abbia svegliato tante riflessioni, di domenica, a stomaco vuoto, è già un buon segno.

mercoledì 27 novembre 2013

Mancanze

Sono a casa con la febbre oggi, poco male. Sotto al piumone, con pigiama, maglia, felpa e maglione con gli alamari mi godo i primi timidi effetti del paracetamolo. Il mal di testa persiste ma quel senso di oppressione su zigomi, fronte, occhi e nuca sembra attutirsi pian piano.
Ieri sera sono andata a cena fuori, solo donne, nella nuova zupperia accanto a casa. Per mesi ho visto quel locale riempirsi di operai, mattoni, conche di materiali, mobili e ho temuto si trattasse di un pub serale, pronto a tuffarsi nella movida genovese e a tenermi sveglia, soprattutto d'estate. Invece qui attorno non fanno che aprire posti da albero: una zupperia, un panificio per celiaci, il "mio" ristorante dell'estate, quello in cui lavorai per comprarmi il frigorifero, nella sua versione invernale, una mini cartoleria "tuttoauneuro" o anche meno, dove sono esposti, nel vicolo, anche gli animali di plastica. Dinosauri, granchi, serpenti, zebre, galline, topi, elefanti, di gomma dura, colorata, un po' brutta anche, ma che fa tanto anni '80, banchi di scuola, spiaggia, odore di plastica.
Ogni giorni che passa, in questa piccola casa verde e bianca, sto sempre meglio. Fa per me, lo sento. Anche se a volte la guardo in maniera lontana e distaccata, anche se spesso mi sento ospite tra i miei stessi muri, credo che la pace, il silenzio e la protezione che ho trovato qui fossero proprio quelli che mi mancavano. Basta spulciare in un robivecchi e portarsi a casa una seggiola verde bosco o trovare dei piccoli funghi rossi da piantare nel vasetto chiuso in serra, per sentirsi amati, per sentirsi a casa.
Ieri pomeriggio ho parlato tanto di mancanze, di controllo dell'assenza, di quanto questo mio nuovo rapporto con il cibo sia bello, importante e pericoloso al tempo stesso, o di quanto, per lo meno, io lo viva così. Mangio cose che mi fanno bene, mi concedo rarissimamente degli sgarri, delle "coccole" alimentari, sottoforma principalmente di lieviti e latticini. Non bevo quasi più nulla di alcolico, ho reintrodotto il glutine per capire se davvero la celiachia sarà una nuova compagna di giochi oppure no, ma per il resto persevero nella mia rigida dieta senza regali, tanto da portare a casa degli esami del sangue in cui colesterolo, trigliceridi, glicemia e transaminasi sono in certi casi addirittura sotto norma. Io, come sempre propensa alle dipendenze, ho le orecchie a punta in questo momento, tese a captare qualcosa che magari non c'è ma che è meglio vedere subito in caso ci fosse. Controllo quello che mangio, la quantità di coccole che ricevo, che mi concedo. In un momento in cui non ho proprio nulla di cui lamentarmi, in cui tutti i campi della mia vita mi offrono qualcosa di buono, di fortemente voluto, di tanto cercato, io mi tolgo del piacere dove posso. E mi piace, mi fa sentire forte, perché ho acquistato energia, perché ho perso i chili accumulati, perché non ho più mal di stomaco, perché la mia pelle è luminosa e perché ho di nuovo il controllo della situazione. Ho provato diverse mancanze, di persone che sono morte, di persone che sono passate nella mia vita e se ne sono andate facendomi soffrire, di soldi, di amici, di salute, di stimoli e soddisfazioni, ma non avevo mai provato mancanze alimentari, non avevo mai dovuto rinunciare a nulla. Anche in questo caso mi sono adattata con una velocità imbarazzante di fronte a questa assenza, ho tolto tutto quello che mi hanno detto di togliere esattamente nello stesso modo in cui dieci anni fa ho indossato la prima calza elastica e ingoiato la prima pastiglia per la coagulazione: non ho più smesso. Non ci sono ancora abbastanza elementi per capire quale meccanismo metto in pratica ogni volta, dove arrivi una semplice propensione caratteriale all'obbedienza e dove cominci uno spirito di sacrificio poco sano e legato al concetto di punizione. Tutto questo non l'ho capito per adesso, mi pare già una buona cosa ragionarci su e non prendere automaticamente per giusto ogni mio comportamento. Poi si vedrà.

P.S. Ho scattato questa foto domenica, durante una bella pessaggiata d'inverno con un'amica. Era l'ora del tramonto, c'era un cielo bellissimo. Ieri sera ho terminato il libro di Mauro Corona che mi ha regalato Andrea (Confessioni Ultime), tra le mille frasi che ho sottolineato c'è questa, che mi fa pensare alla foto lassù:
"La betulla piega il ramo fino a terra e scarica la neve altrimenti il peso glielo spezza. Cedendo vince."

domenica 24 novembre 2013

E-books, i libri di Elena

Qualche giorno fa Barbara, lettrice del mio piccolo mondo, mi ha chiesto di scrivere un post sui libri che ho amato di più. Impresa impossibile o, per lo meno, difficilissima. Ho imparato a leggere presto, ho letto molto (non moltissimo) nella mia vita, tantissimo da piccola, poco da adolescente, ho ripreso con regolarità all'Università e ora vado a ondate, di solito inversamente proporzionali a quanto scrivo.
Scrivo tanto, leggo poco e viceversa.
Compilare un elenco di libri che ho amato è difficile innanzi tutto perché non so come dividerli, come catalogarli. Per autore? Per genere? Per periodo della vita in cui li ho letti? Non ne ho idea, proverò a lasciar andare l'istinto, la stessa scelta che ho preso quando ho arredato casa e ho dovuto sistemare i libri su mensole, librerie e nicchie.
Se comincio dalle prime passioni non posso dimenticare Roal Dahl e Tove Jansson, uno con il meraviglioso GGG (Grande Gigante Gentile) e la seconda con tutta la serie dedicata alla Famiglia dei Mumin. Per quanto riguarda le raccolte sono costretta a citare anche la saga animata di Boscodirovo e la sua autrice, Jill Barklem, le cui storie hanno riempito giornate, domeniche, pomeriggi sui prati e serate sotto le coperte. Un librone gigante che mi ricorda la mia infanzia è Il Meraviglio viaggio del piccolo Nils (di Selma Lagerlöf), portatomi da papà dopo una trasferta, di cui però non ricordo quasi nulla, non so nemmeno se lo lessi fino in fondo.
Tralasciando i vari e scontati Noi ragazzi dello Zoo di Berlino e i famosi Jack Frusciante è uscito dal gruppo, i primi romanzi che "da grande" mi hanno fatto sognare sono stati La Regina Disadorna del mio conterraneo Maurizio Maggiani e Oceano Mare di Baricco. Da questo momento in poi, tanti dei libri che citerò saranno inevitabilmente legati ai sentimenti che si portano dietro, sia perché regalati da un amore sia perché associati a un periodo particolare della mia vita. Cominciamo da Banana Yoshimoto, di cui ricordo Kitchen e Sonno Profondo, due gran bei libri. Se resto in Giappone è ovvio che mi metto a scrivere di lui, il buon vecchio Haruki Murakami, primo su tutti Norvegian Wood, ma in questo caso faccio davvero fatica a scegliere: a parte L'arte di correre i suoi libri li ho amati tutti (in particolare L'uccello che girava le viti del mondo, Nel segno della pecora, Dance Dance Dance e Kafka sulla spiaggia). Tra le autrici femminili mi vengono in mente Alice Sebold e il suo Amabili resti (ricordo ancora che lo lessi in ospedale...che idea!), Miranda July con Tu più di chiunque altro, Margaret Mazzantini con Non ti muovere (quanto ho pianto!), Ester Armanino con Storia naturale di una famiglia e la Muriel Barbery dell'Eleganza del riccio.
In Italia ci sono i giovani come Davide Enia con Così in terra, Alessandro D'Avenia con Cose che nessuno sa o Fabio Giordano con La solitudine dei numeri primi e i meno giovani come Massimo Gramellini, di cui ho adorato Fai bei Sogni. Sempre di casa nostra, ormai qualche anno fa, mi è stato presentato Erri de Luca che, al di là delle polemiche sul suo modo di scrivere spesso simile a se stesso, alla brevità dei suoi libri, alla pomposità di certi passaggi, per me resta un grande autore e se devo scegliere un libro a caso di quelli che ho letto, d'istinto dico Montedidio. Altri italiani Niccolò Ammaniti con Ti prendo e ti porto via e Raffaello Mastrolonardo con Lettera a Lèontine (un massacro del cuore). D'estate, chi mi legge lo sa, prediligo i gialli e in particolare quelli nordici, per questo qui citerò i lavori di Anne Holt, uno su tutti il primo che mi capitò tra le mani ormai parecchi anni fa: Quello che ti meriti (in realtà nemmeno uno di questi piccoli thriller freddi e silenziosi mi ha mai deluso). Da poco ho invece scoperto Fred Vargas e per ora il migliore è, secondo me, L'uomo a rovescio. Tornando ai romanzi, uno di quelli che sicuramente ha segnato in maniera indelebile la mia vita e i miei gusti è Molto forte incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, in assoluto uno dei miei autori preferiti (del suo Ogni cosa è illuminata ho già scritto anche qui). Negli anni ho letto, e amato, anche Le ceneri di Angela di Frank McCurt, L'Amante di Abraham Yehoshua, Middlesex di Jeffrey Eugenides, Quella sera dorata di Peter Cameron, L'albero delle lattine di Anne Tyler (di lei ho letto molto e mi è piaciuto quasi tutto), L'età dei sogni di Anna Gavalda, La vita davanti a sé di Romain Gary (una Storia), Sabato di Ian McEwan e Nel mare ci sono i coccodrilli di Enaiatollah Akbari, letto da poco. Tra i saggi, cioè quei libri mistoscienza che tanto mi piace leggere ci sono L'uomo che scambiò la moglie per un cappello di Oliver Sacks, Se niente importa di nuovo di Safran Foer, Donne che amano troppo di Robin Norwood, Xto e J-C. Christo e Jeanne-Claude, la biografia di Burt Chelbow.
Mi accorgo che in in questo lungo post non ho dato spazio, più o meno volontariamente, né alle poesie, né ai libri su giardini-orti-alberi-fiori-ecoseverdichepiaccionoame, né ai grandi classici come L'amore ai tempi del colera o Il Piccolo Principe, non so perché, forse semplicemente perché li vivo meno come scelte: li ho letti perché...chi non lo ha fatto? Mi pare di averli recuperati tutti, o almeno molti, se dovessero venirmente in mente altri li aggiungerò e quando ne leggerò di nuovi farò altrettanto!

mercoledì 20 novembre 2013

Quello che sono diventata

E' già un bel po' che non pubblico un elenco, ed è già un bel po' che non scrivo di mio padre. Ma questa volta è diverso, perché il periodo è diverso e io sono diversa. Nonostante le milioni di cose che dovrei fare (e non faccio), una su tutte dedicarmi alla tesi di dottorato, nonostante ci siano ancora molti aspetti della mia vita che dovrei affrontare e cercare di capire, sono felice.
Sono felice perché trascorro giorni belli, sensati, o forse perché trovo il senso in cose che prima per me non ne avevano affatto. Forse questo senso non lo cerco neppure e la mia anima sempre inquieta si è improvvisamente rasserenata. Mai come nelle ultime settimane sto dicendo cosa penso alle persone che amo, a quelle che non amo, agli amici, ai capi, persino ai vicini di casa. Mai come nelle ultime settimane tutto questo mi solleva. Faccio solo fatica a prendere sonno la sera, in quei minuti al caldo del piumone vengono a trovarmi pensieri cupi, dolorosi, colpevoli. Ma per il resto del giorno le ore scorrono tranquille, nonostante le difficoltà, nonostante il tempo non basti mai. Non mi affretto più come una volta, non mi struggo più per uno sciopero AMT che mi costringe a camminare quaranta minuti sotto la pioggia e mi fa arrivare tardi in laboratorio, non mi lascio cogliere dallo sconforto nonostante non riceva le risposte che vorrei da molte delle persone a cui chiedo qualcosa. E allora è in quel momento che entra in gioco mio padre, che sogno ormai pochissimo e al quale non mi viene più naturale rivolgermi, in queste pagine, come se stessi scrivendo a lui. L'altro giorno mentre compilavo la lista dei desideri per Cindy ho pensato a cosa avrebbe detto se gli avessi mostrato quello che mi piacerebbe comprare, fare e vedere. Sono passati quasi nove anni, gli anni dei grandi cambiamenti, delle scelte, delle porte chiuse, per tutti. Per me sono stati anni di problemi di salute, arrivati a cadenza regolare, come un pendolo, quasi a ricordarmi da dove nasco, qual è la mia genetica, cosa è successo alla mia famiglia, a mio padre. Ora mi pare distante quella striscia scura di luci spente, rumori da non fare, cene inaspettate, voci alzate, film sul divano e gatti che ronfano. Mi pare distante non solo nel tempo ma anche nella mia testa, mi pare distante in modo sano, umano. E allora mi esce spontaneo un elenco, che ho annotato senza accorgermene, negli anni. Una lista delle cose che sarei curiosa di sapere come prenderebbe mio padre, di novità, di gusti, scelte e opinioni che ho abbracciato diventando una donna e che lui non potrà mai commentare con me. Eccola:
- Sono andata a vivere nei vicoli, da sola (e no, non in Piazza della Posta Vecchia)
- Ho imparato (parola grossa) a scattare fotografie in manuale e ho anche una reflex, lui secondo me non aveva nemmeno visto la mia compatta
- Vado pazza per l'agrodolce, metto l'uvetta negli spinaci e caramello le cipolle!
- Bevo la birra!
- Ho aperto (e chiuso) un'azienda, mi sono laureata e mi sto per dottorare (forse). Lavoro pure in università adesso.
- Continuo a non guidare, la sua dissuasione direi che è stata molto efficace!
- Ho tenuto i capelli lunghi, per molti anni
- Ho convinto la mamma a prendere una gattina che ora vive con lei
- Ho imparato a cucinare! Una cosa che gli sembrerebbe a dir poco incredibile
- Continuo ad essere terrorizzata dai ragni
- Sono andata in moto un sacco, l'ultima volta ieri con una mia collega
- Collaboro con un gruppo che lavora con i robot, robe elettroniche. Assurdo
- Mangio i cavoli e i finocchi crudi e vado matta per il pesce
- Continuo a truccarmi poco e a non indossare abiti troppo trasparenti
- Metto i tacchi e ci cammino pure bene!
- Non ho perso la passione per i mercatini dell'antiquariato e per i negozi di vestiti usati
- Ho smesso di parlare con lui e, nonostante tutto, è più vicino di prima. Con serenità.


martedì 12 novembre 2013

L'uomo che dormiva con le scarpe

Una volta c'era un uomo che dormiva con le scarpe. Che scomodità direte voi, che schifo. Lui però mica si coricava con le scarpe che metteva per uscire, lui ne aveva un paio apposta per la notte, con una bella suola robusta, la tomaia in pelle marrone, i lacci beige che annodava con il fiocco. Dopo essersi lavato i denti e abbottonato il pigiama fino in cima, l'uomo che dormiva con le scarpe si sedeva sul bordo del letto, indossava un paio di calzini puliti e infilava i piedi al loro posto.
D'estate e d'inverno. All'inizio aveva due paia di scarpe diverse, uno che cominciava a mettere a maggio, di tela azzurra con i lacci bianchi e uno per la stagione fredda, più alto sulla caviglia e con le cuciture spesse. Col tempo decise di arrangiarsi con una via di mezzo, che non lo facesse sudare nei sonni di luglio e lo sapesse riparare nelle notti di Natale.
Ma perché l'uomo che dormiva con le scarpe, dormiva con le scarpe? Per essere sempre pronto a scappare, per non farsi mai cogliere impreparato, per imboccare con destrezza il corridoio, aprire la porta d'ingresso e fuggire nel buio.
Aveva fatto la guerra? No. Era stato aggredito? No. Aveva subito minacce? Nient'affatto. L'uomo che dormiva con le scarpe sognava sempre, ogni volta che andava a dormire e sprofondava nel sonno lui sognava; ma non sognava i banchi di scuola, la casa dei nonni, il pranzo di Pasqua o le foglie d'autunno, lui sognava percorsi, fossati, ponti di legno e corda, salti nel vuoto, prati scoscesi, rocce appuntite. E sognava uomini vestiti di scuro che gli correvano dietro, garage semi aperti in cui nascondersi, automobili a fari spenti che gli sfrecciavano accanto, finestre sbarrate, tetti scivolosi, pollai silenziosi, scatole chiuse.
Prima di prendere l'abitudine a dormire con le scarpe, l'uomo che dormiva con le scarpe si svegliava in piena notte, nel bel mezzo di una fuga, con la schiena sudata e i muscoli contratti, senza capire cosa fosse successo e cosa lo avesse spinto a sgranare gli occhi nel buio, in preda alla sete e all'angoscia. Dopo diversi episodi di insonnia, spaventi, e sogni interrotti a metà, lo capì. Se ne accorse una notte di febbraio, mentre correva tra l'erba alta, con un senso di inadeguatezza diffuso, con il fiato corto e il rumore di qualcuno alle calcagna che spezzava rami secchi ad ogni passo e fendeva l'aria fredda e profumata di paglia. Mentre continuava a zigzagare, con falcate regolari, volgendo ogni tanto gli occhi verso il cielo stellato, sentì un dolore acuto sotto la pianta del piede destro, come una grossa spina che si conficca nella carne, come un pezzo di legno duro che si pianta senza fare rumore. Perse l'equilibrio, cadde tra l'erba e si rialzò, cercò a tastoni qualcosa di invisibile e di doloroso poco sotto all'attaccatura delle dita, provò a muoversi ancora, ma una mano gli afferrò la maglia, tra le scapole e lo tirò via dalla sua corsa, svegliandolo. Cosa era capitato? Semplice! Come la notte in cui saltando giù da un muro era atterrato su una bottiglia rotta tagliandosi un calcagno e ritrovandosi rigido e sveglio sotto le coperte, o come quando svoltando dietro ad un angolo aveva sbattuto l'alluce contro un marciapiede troppo sporgente ed era balzato dal letto urlando, anche quella notte nel prato stava sognando senza scarpe. Strade sporche, siringhe, pozzanghere, macchie d'olio, cacche dei cani, ghiaia appuntita, rocce taglienti, neve e ghiaccio, asfalto bollente, corridoi di treni e pavimenti di stazioni...tutti calpestati senza scarpe, di corsa, con la paura di non arrivare alla fine del gioco e di svegliarsi prima, senza aver superato lo svantaggio di aver combattuto ad armi impari. Come fare per vincere, per veder nascere il giorno dopo una notte dormita tutta di filato, per provare la bella sensazione di un atterraggio protetto, di una schivata in scivolata, di un balzo su un piede solo? Indossando un paio di scarpe, comode preferibilmente. Da quella notte di febbraio, quindi, sotto un cielo stellato tra l'erba alta, l'uomo che dormiva con le scarpe cominciò una nuova vita, iniziò a divertirsi, a svegliarsi realizzato e riposato, a sentirsi forte e capace, indipendente e in gamba, pronto ad annodare i lacci, fare un bel respiro, voltare le spalle al mondo e chiudere gli occhi.


venerdì 8 novembre 2013

Ma tu, di preciso, che lavoro fai?

Io, di preciso preciso, non faccio nulla. Ma se uno si accontenta della precisione non assoluta allora basta farsi andare bene questa definizione: "Io di lavoro cerco le piccole cose". Aridaje direte voi, con sta storia delle mini isole, del quotidiano, delle micro conquiste...però non sapete, perché non ne parlo (scrivo) mai, che è davvero così, che la maggior parte del mio lavoro si svolge al microscopio, davanti al monitor del computer, oppure in mezzo a risultati minuscoli, da sistemare e da rendere grandi.
Questo passaggio dal piccolo al grande lo faccio ogni giorno, dinanzi a tutte le occasioni che incontro e non solo sul lavoro, ma anche nell'amore, nell'amicizia, nelle passioni alternative che da sempre coltivo in semi silenzio.
Quando mi dedico a quello per cui ho studiato, sto studiando e per cui vengo regolarmente pagata (ancora un anno e mezzo), allora le cose piccole diventano tracce di colore, pennellate infinitesimali scampate alla furia pulitrice che ci ha contraddistinti per un buon periodo storico, quando riportare una statua al suo antico e candido splendore ci pareva la mossa più trendy e intelligente da compiere. Chissà se in quel tempo gli "addetti alla rimozione delle pitture" si sarebbero mai immaginati che secoli dopo una povera disgraziata, super precaria assegnista di ricerca, avrebbe passato intere giornate con una pistola a Raggi X in mano (Spettrofotometro a Raggi X portatile - XRF, per chi fosse interessato a capirne di più o già lo conoscesse), nella speranza di riuscire ad individuare, analizzare, rilevare e caratterizzare un piccolissimo granello rosso rimasto incastrato nella narice di un doge di marmo, una scheggia d'oro grande quanto una lentiggine appena visibile sull'aureola di un angelo di Pietra di Promontorio, una briciola di azzurrite in un mare di ardesia. E quindi benvenuti trabatelli mostruosamente oscillanti, macrofotografie, lenti di ingrandimento, microscopi USB da cantiere, lampade di Wood, diottrie, scale a pioli, seggiole, punte dei piedi, tutti ugualmente indispensabili per arrivare a padiglioni auricolari profondissimi (tipica sede di pennellate dimenticate), per guardare in mezzo alle dita dei piedi, tra le labbra o nei riccioli di un soldato di pietra, per raggiungere pannelli di lavagna dipinti e appesi in una chiesa o sovrapporta policromi dispersi in un vicolo di città. E quando, nei rari casi in cui mi è concesso effettuare un prelievo, posso portare il mio piccolo materiale via con me, allora è il momento di sedersi, preparare il campione nel suo letto di resina epossidica, guardarlo al microscopio ottico, contarne gli strati, confrontare i colori trovati con gli elementi chimici rilevati dall'XRF e dare un'ultima occhiata al tutto in microscopia elettronica (SEM-EDS), dove di solito escono fuori i nomi definitivi, dove un mercurio e un'ombra rossa vengono chiamati cinabro con più sicurezza, dove uno striscia bianca stesa prima di tutto il resto e piena di piombo è una preparazione a Biacca, dove un blu che non contiene rame e neppure cobalto probabilmente nasconde un preziosissimo Lapislazuli. Ieri ho guardato quattordici campioni al microscopio ottico e dopo mille peripezie, strumenti rotti, strumenti occupati, tempi stretti, tecnici in arrivo, tecnici in ritardo, tecnici assenti, scadenze e nervosismi, sono riuscita a prepararmi diverse cartelle fotografiche da cui attingere per report, relazioni e tesi.
In un grande insieme, bello e pieno di caratteristiche inequivocabili, cerco la distrazione, cerco la traccia di qualcosa che gli altri vedono a fatica, guardo di cosa si tratta, lo mostro a chi non lo trovava o non l'aveva mai visto, lo metto in luce e lo valorizzo, lo rendo importante perché lo è. Questo è ciò che spesso mi capita anche con la gente, le delusioni più grandi arrivano infatti quando ti sembra di avere trovato qualcosa di raro, di piccolo ma grande, di speciale e prezioso, e hai l'onore di notarlo tu per prima, di tirarlo fuori e rendergli merito, per poi accorgerti che questa minuscola macchia di colore non era altro che un intervento di restauro, una chiazza di vernice caduta lì per sbaglio, un granello di sporco completamente casuale.

venerdì 1 novembre 2013

Quei portoni chiusi a metà

Quando mi sono iscritta all'università, ormai un sacco di anni fa, non conoscevo le tante, anche bizzarre, usanze e tradizioni ormai consolidate che circolavano nei vari corridoi ed edifici di Via Balbi. I cani nel cortile che vagavano indisturbati a tutte le ore, il signore davanti al Bar Cavo che cantilenava ogni giorno "me lo paghi un panino?" in faccia alle migliaia di pendolari che si riversavano fuori dalla stazione, le foto post laurea (inspiegabilmente orrende quanto obbligatorie) scattate accanto al pozzo o sulla terrazza di Balbi 2, il portone di Lettere chiuso (o aperto, questa è come quella del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto) a metà in segno di lutto.
In tanti anni di studi quel portone si è mezzo chiuso parecchie volte, segno peraltro evidente dell'anzianità accademica in cui viviamo, ma ieri è stato diverso. Quando il telefonino mi è squillato durante l'animazione del Festival e ho visto la chiamata di Giacomo, non so perché, ho capito. Si sapeva che il Prof era malato da tempo e che presto avremmo appreso della sua scomparsa, ma quando se ne va un pezzo della tua vita, della tua formazione, della tua passione, un piccolo lenzuolo si posa su quell'angolo del tuo cuore. Io ieri stavo "insegnando" e quante volte mi capita di ritrovare nelle mie gestualità, nei miei modi di dire, nelle mie pause e nelle mie battute, gli stessi atteggiamenti di alcuni dei professori che ho incontrato durante il mio percorso. Sicuramente, molta dell'attitudine all'osservazione, della voglia di capire qualcosa di apparentemente complicato, della capacità di guardare un'opera incomprensibile, astratta, stupida e irriverente e coglierne i perché mi è stata passata da Lui, da questo signore un po' rotondo, con il sorriso timido di un bimbo, la voce pacata e dolce, l'enorme cultura e preparazione. Mai davanti agli altri, mai scortese e brutale, mai maleducato con gli alunni, mai scostante durante gli esami, mi ha raccontato la storia di Christo e Jeanne Claude tanto da farmene innamorare, mi ha mostrato il Blue di Klein, mi ha aperto il mondo di Staglieno con tutte le sue grane e tutte le sue meraviglie. Così è naturale per me andare domani a dargli l'ultimo saluto, ringraziandolo in silenzio per avermi insegnato a cogliere l'arte in ogni cosa, da una linea nera su un foglio bianco ad un'architettura complessa, dalla saturazione di un colore alla forma astratta di una statua.
Quando qualche giorno fa Davide, visitatore-pittore approdato nel nostro laboratorio, mi ha proiettato in un baleno nella poesia pura dell'arte contemporanea chiedendomi dall'alto dei suoi quanti? dieci anni scarsi? se poteva fotografare il soffitto della sala in cui ci siamo sistemati, io l'ho vista la fiamma della passione nei suoi occhi. Il fuoco della necessità di conoscere da vicino quelle strane macchie colorate, antichi residui di pittura, sparse sul soffitto, così da poter riversare su tela le emozioni suscitate da quella visione. In un laboratorio dove si pilotano droni, aerei robot telecomandati, dove qualunque ragazzino tra i sei e i sedici anni presterebbe attenzione unicamente all'I-pad e a quel meraviglioso coso nero che gira a mezz'aria, Davide era attratto da una visione, dalla proiezione del soffitto che la sua mente aveva già immaginato dipinta su un quadro. Quante volte, a lezione, il Prof mi aveva parlato di questi momenti, degli attimi in cui un artista contemporaneo percepisce l'opera in arrivo, la sente e la vomita, la espelle, la butta fuori con urgenza. E c'era urgenza negli occhi di Davide quando ha scritto sulla nostra nuvola dei messaggi le parole "Pitore Solpreso" sotto al suo nome, per ricordare a tutti che quella mattina, né i droni né probabilmente la mia spiegazione interattiva, piena di esperimenti e facce buffe, lo avevano sorpreso quanto quelle stupide macchie sul soffitto. Arte pura. E allora mi impegnerò a scattarla una foto a testa insù, a ritrovare Davide tra le centinaia di visitatori passati da noi e a mandargli quell'immagine che tanto gli era piaciuta, perché Lei, Prof, avrebbe fatto lo stesso.

venerdì 25 ottobre 2013

Il Dio delle piccole cose

Secondo giorno di Festival, primo giorno di ciclo in anticipo di un sacco, quarta ora di letto tra sonno, scrittura e pensiero. Devo mettermi in testa di lavorare al seminario per la prossima settimana, devo cercare di rilassarmi davanti alla tesi in ritardo mostruoso, perché per entrambe le cose l'unica soluzione è questa: lavorarci/rilassata. Senza isterismi, paranoie e crolli emotivi. E' solo che sono cose grosse (dal mio punto di vista, è naturale, vallo a dire a un bambino Afghano)e io, é inutile, non riesco ad affrontarle. In quelle piccole ci vivo: un sottobicchiere, una coperta, una colazione con un'amica un po' triste, una telefonata alla mamma, una "cena altrove", un libro bello, una ricetta nuova, un sentiero di terra e pietre, una collaborazione minuscola per un blog scoperto da poco ma portatore di quell'incanto delicato che piace a me. Del resto, quando ero piccola mi innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani, come canterebbe il buon Faber e ora non riesco ad arrendermi davanti alla soluzione così chiara e sicura che prevede di lasciare un po' perdere le piccole cose per dedicarmi a quelle più grandi. Progetti, scadenze, possibilità che hanno un grande difetto: l'imprescindibile condizione che io ci creda e che creda in me stessa. Giammai. E allora chiedo ancora aiuto a De André, che di solito ascolta e risponde, non regalate terre promesse a chi non le mantiene, mi sta dicendo e io sono d'accordo: la metà delle cose che non faccio restano in potenza perché non mi fido e mi difendo con i denti da chi mi promette e mi frega. Questo lo faccio da sempre e, vaffanculo, sempre lo farò, magari però un po' di discernimento in più non guasterebbe, ogni tanto. Dopotutto ho voltato la carta milioni di volte sul mio percorso, quando leggo il curriculum al contrario trovo questo: babysitting, ripetizioni, interviste di mercato, cameriera, animatrice, educatore ambientale, imprenditrice, collaboratore di redazione e forse qualcosa si é pure perso tra le righe e nel tempo. Di tutte queste avventure iniziate, continuate, concluse, quello che ricordo con un mezzo sorriso sono le piccole cose, i pomeriggi sul divano con le mie bimbe sorelle della mattina, il buio sui vetri dell'altra casa della sera, il primo sei di inglese di Chiara, le domeniche a ridere in cucina, i libri di storia dei fratellini ricchi, il ponteggio che oscilla su Genova, i pagamenti in marmellata, la costa calabra avvolta nella coperta di Campopisano con il gelo nelle dita e l'attesa nel cuore, la fila di cappellini colorati sui sentieri delle Cinque Terre... con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia ma colpisco un po' a casaccio perché non ho più memoria. Chissà se mai riuscirò ad accantonare queste piccole emozioni, perché forse la vera soluzione che prevede di salvare bimbo acqua catino moglie ubriaca botte piena capre e cavoli e tutte le possibili combinazioni continua ad essere troppo distante per me. Aprirmi ai grandi progetti pensando anche alle piccole cose è come dire mettersi il rossetto rosso rimanendo sobrie ed eleganti, c'è chi ci riesce, per carità, ma non è cosa da tutti.
Non é cosa da me.
E allora, se devo cambiare, al "Dio delle piccole cose non credere mai", anche se, almeno per stasera, lasciatemi sorridere con questo

martedì 22 ottobre 2013

Un viaggio con lei

Raro post della pausa pranzo, giusto un attimo prima di riprendere la lettura dei soliti articoli in inglese.
Questa mattina sono salita in ufficio più tardi, alle nove avevo terapia e quindi prima delle dieci e mezza non sono riuscita ad arrivare. A colazione mi sono concessa una brioche che con la birra di ieri sera fanno un po' troppi lieviti in meno di ventiquattro ore, ma pazienza.
Per andare nello studio devo prendere il solito bus, il 44 e scendere dalla piazza. Il tragitto è breve se non fosse che alla mattina la zona che attraversa è terribilmente trafficata, quindi ci vogliono almeno una decina di minuti per arrivare a destinazione. Sono riuscita a sedermi nell'ultimo posto disponibile, uno di quelli in coda, che basta una frenata per ritrovarsi a correre in mezzo all'autobus. Chissà a cosa ho pensato, so solo che a un certo punto mi sono alzata per avvicinarmi alla discesa, ed è lì che l'ho vista. Non so da quanto mi stesse osservando, stava ferma, un po' pallida, e mi guardava con quegli occhi grandi, giovani e chiari. Vicino alle porte centrali, seduta composta con la borsetta in grembo, c'era mia nonna, materna. In verità quella donna di mia nonna aveva solo lo sguardo, l"intonazione" dello sguardo, profonda, dura, tenace, un po' giudice forse, ma con un velo sottile di benevolenza. Mia nonna Rosetta è morta che avevo 8 anni e me lo ricordo. Ricordo che i miei mi lasciarono da Elisa, un'amichetta delle elementari, per qualche giorno, il tempo di permetterle di morire in pace e di organizzare i funerali. Ricordo che mi dissero che era caduta e che si era rotta il naso, per anni ho pensato che rompersi il naso fosse una cosa molto grave, per cui si potesse anche morire, a volte.
Il giorno del funerale andai in giro con Maura, la mia babysitter, c'erano i manifesti funebri attaccati per il paese e io cercavo di leggerci il mio nome, ora non so più dire se lo avessi trovato. Ricordo di non aver visto mia mamma piangere, ma ricordo che da Elisa venne a riprendermi anche papà, con la giacca di renna, e capii subito che la nonna non l'avrei più rivista. Quella sera mangiammo bresaola.
Con il senno di poi capisco la scelta di un pasto già pronto, probabilmente comprato al super all'ultimo minuto, dopo giorni di flebo, ricambi, camici e scelte.
Negli anni le cose mi sono state raccontate meglio, mi è stato spiegato il forte dimagrimento della nonna negli ultimi mesi, il suo pudore nel chiedere aiuto e lasciarsi curare, i suoi silenzi, la sua caduta, il suo naso rotto.
Qui ho sempre scritto poco di lei, una delle tante donne di quel ramo della famiglia, forse ho raccontato del suo affanno quando mi portava con sé al mercato, dei suoi capelli lunghissimi e grigi raccolti in un muccio perfetto ogni mattina. Non l'ho mai vista con i capelli sciolti, è un'altra cosa che mi hanno raccontato dopo, ho sempre creduto che li avesse così da quando era nata. Mia nonna vestiva sempre di scuro, senza essere a lutto, ma forse se si perde un fratello ragazzo, partigiano ucciso in un'imboscata a guerra praticamente conclusa, si resta in lutto tutta la vita. Mia nonna, a modo suo, ha sopportato mio nonno, e questo fa di lei, ai miei occhi, una martire...comunque siano andate le cose e nonostante la sua presenza nella mia crescita probabilmente abbia fatto molti danni. Mia nonna era alta, grande, con delle spalle larghissime e un sorriso dolce, a labbra chiuse, per non mostrare i pochi denti rimasti. Ricordo che da piccola la chiamai una volta Gargamella e la mamma mi rimproverò, dicendomi che non dovevo offenderla. Le davo i baci sulle guance morbidissime, ma molto raramente, la mano invece me la stringeva spesso e la sua era robusta, ossuta e forte. Di mia nonna ricordo perfettamente la voce, cosa che per anni, di mio padre, non ho ricordato, nonostante fosse una sua caratteristica distintiva. L'insistenza con cui la signora sul bus mi guardava mi ha messo a disagio, sembrava volermi rimproverare, sembrava volermi ricordare qualcosa di importante su cui riflettere. Forse per questo, nell'ora di terapia, abbiamo parlato a lungo di cose della mia infanzia e anche di mia nonna. Da mia nonna ho ereditato qualcosa, ma non so cosa, forse il suo stare in silenzio davanti alle cose sbagliate, sicuramente non la tenacia, né l'aspetto. Di mia nonna ho ereditato anche il mio problema di coagulazione, nella foto quassù, sulla sinistra, c'è anche lei con la gamba fasciata proprio come la mia. Lì, mentre riempivo l'annaffiatoio per dare l'acqua ai suoi fiori, lei mi sorvegliava in disparte, in silenzio, probabilmente osservandomi con quello sguardo strano.

lunedì 21 ottobre 2013

Un gatto che miagola

Oggi è iniziata con un gatto che miagola.
Non so che ore fossero, le sei forse, mi sono svegliata perché credevo di essere da mamma e pensavo che quel miagolio fosse di Agata. Ho aperto gli occhi, tastato le lenzuola attorno a me, guardato nella penombra e mi sono resa conto di essere sull'Albero, mi sono riaddormentata e ho sognato. Ho sognato di affacciarmi a una finestra, sopra a un piccolo giardino, dove una gatta nera chiamava il suo piccolo perso...miao, faceva, miao. Niente, mi sono svegliata di nuovo e sono rimasta lì, intristita per questa mamma preoccupata e per questo piccolo nei guai.
Una giornata iniziata così non può che essere di merda, anzi, dimmerda.
Dimmerda perché piove e il tuo pensiero felice comincia subito ad essere la finestra di "beltempo" in cui ritirare il bucato e metterlo disteso sul divano, che tristezza.
Dimmerda perché ti scambiano per una zoccola, in pieno giorno, sotto un palazzo pieno di uffici, solo perché sei da sola e in piedi, solo perché indossi un paio di stivali, solo perché se sei un vecchio maledetto su un'auto scura e impomatata, ti pare normale girare per la città e guardare con la faccia del "che cazzo fai, non sali?" la prima ragazza sovrappensiero che aspetta di caricare un furgone e rimettersi al lavoro.
Dimmerda perché di piovere non smette quasi mai, perciò ti tocca sdraiare i vestiti umidi sul divano col terrore mortale del puzzo di cane bagnato che incombe.
Dimmerda perché sei confusa, in ritardo, perché non ti incontri minimamente con i pensieri di chi ti sta intorno, perché non fai altro che pensare ai batteri solfatoriduttori dei quali devi parlare per poco meno di un'ora la prossima settimana.
Dimmerda perché non stai facendo le cose come vorresti, perché appena ti siedi un attimo per cucinarti uno schifosissimo tofu con l'insalata, alla radio passano Emma, Mengoni, Pausini/Minogue giusto nel tempo in cui ingoi un pranzo immondo alle due e mezza del pomeriggio.
Dimmerda perché devi caricare su Facebook l'album dell'allestimento Festival e il link al nuovo blog di SDR e scopri, sconcertata, che nelle tua ora libera si sta verificando il baco più grosso del sistema mondiale e il tuo profilo è uno di quelli bloccati.
Dimmerda perché arrivi in tempo per recuperare maglia-badge-contratto, in tempo per prenderti una secchiata d'acqua e provare a infilarti, in ritardo, a pilates, nel vano tentativo di rilassarti. Si sa, fare attività fisica con lo scazzo cosmico e tutti i muscoli contratti aiuta, sì, ad uscire idrofoba desiderando soltanto di roteare una katana davanti alla faccia di tutti quelli che ti salutano.
Dimmerda perché l'enel, per riattivare la luce nella scala del tuo condominio impiega 48 ore, più 10 giorni. E quindi le scale le devi fare al buio, la serratura la devi cercare al buio e gli stinchi sugli scalini li devi sbattere al buio.
Dimmerda perché per cena c'è di nuovo tofu. E riso. In bianco. Ed è troppo...davanti a tutto quel pallidume è davvero troppo e allora col pile giallo senape (l'eterno), i leggings del pilates, gli stivali (no, non sono una zoccola), esci di casa. Entri nel locale sempre aperto, di lunedì martedì mercoledì giovedi venerdì sabato domenica, a colazione pranzo cena dopocena notte fonda, e chiedi una birra. Un signore gentile ti guarda compassionevole, guarda il tuo impermeabile con i bottoni rosa, i tuoi stivali (ancora???), l'odore del tofu che ti porti dietro e apre il frigo mostrando una serie di bottiglie fresche. Hanno la Modelo Especial. La Modelo Especial significa ristorante messicano, significa 35.5 cl dorati e leggeri (mica 33!), significa che mangiare alle dieci una roba orribile diventa possibile, con due biscotti al cioccolato diventa quasi buono.
Quindi, morale della favola, se senti miagolare un gatto, nel dubbio, comprati una birra.
(Per inciso, alla radio ora passano Cat Stevens)

venerdì 18 ottobre 2013

La rossa

Serata da blogger, oggi. Un nuovo progetto che è ancora presto per parlarne, gli occhi che bruciano e il cuore risollevato da un pomeriggio fertile per la mia autostima. Conferenza su parte del lavoro che sto svolgendo in Università andata bene, meglio del previsto, non tanto per il successo avuto quanto per le conferme circa l'esattezza delle analisi che faccio, arrivate come un fulmine al ciel sereno dalla presentazione dopo la mia. E c'è persino la possibilità che io abbia accesso a quei dati per confrontarli con i miei e inserirli in tesi...incredibile.
Ma non è di questo che voglio scrivere, né del Festival in arrivo, né delle grandi scadenze vicine in maniera inversamente proporzionale al tempo che ho a disposizione per organizzarmi.
Stasera, prima di rannicchiarmi sotto al piumone, voglio raccontare la domenica che ho trascorso ormai quasi una settimana fa. Non è successo nulla in particolare per la verità, ma ho vissuto una serie di piccole situazioni che sembravano simboleggiare il mio percorso.
Alzata presto con mamma ho infilato le scarpe da trekking, la felpa verde e siamo uscite di casa, direzione Marcia delle Lische. Questa camminata amatoriale, organizzata tutti gli anni nell'infame stagione autunnale (che peraltro io amo moltissimo!), si snoda lungo una serie di sentieri che conosco e che frequento, non troppo di rado, con Andrea.
La salita verso la Baiarda, le Lische Basse e quelle Alte, i Piani di Pra', sono tutti luoghi dei quali in qualche modo ho parlato anche qui. Le volte che avete trovato alberi, terra rossa, mantidi religiose, piedi che camminano silenziosi davanti ai miei, spesso si trattava proprio di quei posti.
Quindi, l'altra mattina mi sono preparata per una salita, a modo mio, con un po' di entusiasmo e con il pessimismo che mi contraddistingue piantato su quelle nuvole nere a cappello sui sentieri.
Colazione, iscrizione e marcia. Appena partite tappa dagli zii, un caffè al volo, due parole sul tempo in peggioramento e via di nuovo, io e mamma da sole. Da questo momento in poi solo qualche battuta ogni tanto, il fiato risparmiato per il cammino, la sosta al ristoro alla ricerca di acqua e cioccolata, la strada che diventa sentiero e si fa più ripida. Io davanti e lei dietro, i ruoli invertiti rispetto alle mie abitudini "di montagna". La via ogni tanto si interrompe per attendere, accanto a cespugli freschi di taglio che mi pare di riconoscere uno ad uno, sulla vetta sembra che piova e noi optiamo per il percorso intermedio, "la rossa", sperando di scansare aria, acqua e risparmiarci qualche difficoltà.
Ed è in mezzo all'erica di due colori che il vento mi porta una voce: io lo so che è la sua perché mai la confonderei, ma non si vede nessuno all'orizzonte. Basta camminare ancora un poco, svoltare la curva e Andrea è lì di vedetta, che controlla, davanti al mare lontano, che nessuno si perda imboccando una via sbagliata. Un sorriso, anche due, le battute del cacciatore di compagnia e il braccio che si tende, mi dice dove la mia strada si staccherà dal percorso lungo e mi indica il vento sulla pala eolica, fa freddo laggiù.
Da qui in poi è discesa, la mamma mi saltella dietro, io trovo una mantide religiosa senza testa (la prima!) e penso al prezzo salato che si paga a volte per amare qualcuno. Mi sento felice e realizzo in un attimo quanto quella mattina somigli alla mia vita, fatta di preparazioni, salite, piccole soste veloci, previsioni, cambi di programma, rinunce. E' la vita di tutti, no?
Ancora qualche chilometro e ricomincio a riconoscere i posti, stiamo arrivando all'ingresso del sentiero per la Baiarda nel verso in cui lo imbocco io di solito, la polenta calda e il vino rosso sono vicini e solo il cielo sa quanto ci facciano piacere in mezzo a quel freddo polare. Andrea aveva ragione, la pala diceva "vento" e lui, come da un sacco di tempo ormai, a modo suo, mi ha indicato la strada. Mettendoci un sorriso.

sabato 12 ottobre 2013

70

La mamma oggi sta preparando lo stoccafisso accomodato e, conoscendola, sta pensando che non è venuto bene, che tu l'avresti fatto diverso, che il tuo sarebbe stato più buono.
1943-2013: 70 anni. Oggi è, era, il tuo compleanno, mi sono svegliata incazzata, continuo ad essere incazzata e spero che in giornata, passando a trovarti, sto nervoso se ne vada.
Sono giorni, in verità, che mi lascio avvolgere e guidare dalla rabbia, con il mio modo maldestro di tirarla fuori non mi sto confortando granché, ma sicuramente il non rimuginare in silenzio un poco aiuta a sentirsi meno stupidi e meno immobili. C'è da dire che questa cosa della rabbia inespressa non l'ho proprio presa da te, capace a inveire contro chiunque, dicendo le peggio cattiverie, magari per delle cavolate senza senso, per poi sparire qualche giorno e tornare come se non fosse assolutamente accaduto nulla. Io zero. Io istintivamente faccio il contrario, non dico niente per mesi, me ne sto zitta zitta e poi bon, chiudo tutto e non ci sono richieste di spiegazioni che tengano. Bel modo di merda pure il mio, di risolvere le cose e i conflitti.
In mezzo ci sta, come al solito, il comportamento virtuoso, tipo quello di mamma che se qualcosa non va te lo dice, magari anche male, magari anche straccionandoti, ti fa capire (molto chiaramente) il suo punto di vista e poi se ti sei offeso pace, ti passerà.
Io invece sembro quei cani che si arrabbiano con la loro coda: me la guardo furente e lascio montare la rabbia per poi scagliarmici contro e cominciare a roteare su me stessa come un'idiota, sbattendo a terra stremata dopo aver inutilmente provato ad strappare quella cosa lunga attaccata alla mia stessa schiena. Perché ce l'ho con me in realtà, con le mie modalità, che piano piano lo so, stanno migliorando, ma che mi costano ancora una fatica immane e producono pochi risultati se li compariamo al disagio che provo ogni volta che dico cosa penso.
Se tu vedessi il modo in cui gestisco i miei rapporti di lavoro, per esempio, ti uscirebbe senza dubbio una delle tue più tipiche frasi della domenica: "Come fai ad essere così scema?" oppure, ancora più in linea con il tuo stile, mi diresti candidamente che sono troppo "abelinata" e che mi sta bene se vengo trattata a pesci in faccia senza che chi si raffronta con me abbia il minimo scrupolo di coscienza.
E scrivo dei rapporti di lavoro perché sono quelli su cui ritengo di dover agire con la testa, nell'amore l'ho fatto fin troppo in questi anni, il mio compito ora è quello di usare pancia e cuore per vivere gli affetti, l'Affetto, senza freni stupidi e con più spontaneità possibile.
Non so cosa penseresti di me se fossi ancora qui, chissà se comprenderesti la mia totale incapacità a gestire i guai di salute miei e degli altri (io dico di sì, visto che in questo eri davvero una frana), non so se staresti invecchiando in maniera un po' più serena o avresti continuato a rimanertene chiuso con i tuoi fantasmi.
Io, putroppo, ti sento sempre più lontano, ti sogno ormai poco, è come se avessi voltato l'angolo e fossi sparito in mezzo alla gente. E per quanto sia consapevole che è giusto così, che lasciarti andare è un gesto sano e pieno di speranza, che chiudere un poco con il passato vuol dire aprirsi al futuro, nonostante tutto questo, mi dispiace.

lunedì 7 ottobre 2013

Nel mare ci sono i coccodrilli

La lingua, Enaiat. Mentre parli e racconti penso che non stai usando la lingua che hai imparato da tua madre. Al serale, adesso, stai studiando la storia, le scienze, la matematica, la geografia, e stai studiando quelle materie in una lingua che non è quella che hai imparato da tua madre. I nomi dei cibi non sono nella lingua che hai imparato da tua madre. Scherzi con gli amici in una lingua che non hai imparato da tua madre. Diventerai uomo in una lingua che non hai imparato da tua madre. Hai acquistato la tua prima macchina in una lingua che non hai imparato da tua madre. Quando sei stanco, ti riposi in una lingua che non hai imparato da tua madre. Quando ridi, ridi in una lingua che non hai imparato da tua madre. Quando sogni, non lo so in che lingua sogni. Ma so, Enaiat, che amerai in una lingua che non hai imparato da tua madre.
Alla fine di una giornata iniziata in salita e continuata sonnecchiando e torcendomi dal mal di stomaco, terminare questo libro è stato un dono. A pochi giorni dalla disgrazia (l'ennesima) dei morti in mare a Lampedusa, invece delle mille parole incontrate ovunque, stupide, retoriche, offensive, cattive, convenienti, sensate, immonde o dignitose, bastava leggere "Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari".
E bastava anche stamane in sala d'attesa, oggi pomeriggio sulla bilancia, stasera davanti alla cena.
Tutti i bambini dovrebbero sapere, tutti i figli dovrebbero conoscere, storie come questa. Filippo che gioca in piazzetta con Ginevra e gli altri, le "bebè a bordo" appiccicate sulla macchina rossa che ho visto al tramonto, la bimba bionda che tiene la mano del nonno elegante per andare all'asilo.
Dovremmo leggerlo, tutti, io probabilmente più degli altri. Quando mi sento scomoda sul 44, visto che non ho mai dovuto viaggiare nel doppiofondo di un camion alto 50 cm, con decine di persone, senza cibo né acqua per giorni. Quando mi dà noia la palla dei vicini mentre mi rilasso in spiaggia, dato che non ho mai navigato nella notte su un gommone bucato senza sapere dove sono. Quando nel parco ci sono troppe zanzare, dal momento che che non ho mai dormito su una panchina, tra cani randagi e pedofili. Quando fatico a lasciarmi amare da chi mi conosce e vede il mio valore, visto che non sono mai finita in una famiglia straniera, diversa in cultura, abitudini e lingua, che a un mio gesto sbagliato, a una mia parola incompresa, a un mio sguardo difficile, avrebbe potuto decidere di rimandarmi sotto al camion, sul gommone o nel parco di notte.

sabato 5 ottobre 2013

Imparare a leggere

Agata dorme nella stanza accanto e io ho un mal di testa fotonico che mi ha costretto ad accantonare in un attimo l'idea di fare due passi in mezzo alla forte Tramontana autunnale di stamattina.
Mentre aspetto lo squillo di mamma per mettere a cuocere le patate al rosmarino rifletto un po' (tanto per cambiare) sulle strategie di sopravvivenza che sto attuando in questo periodo, per lo meno su quelle che sembrano funzionare.
Ho imparato a leggere, o meglio, sto imparando a guardare le cose che capitano a me e agli altri, per quello che sono. Tutto ha un significato preciso, ma contemporaneamente ne ha mille diversi. Certi comportamenti, certe battute, certi sguardi, certe decisioni, sono figli di avvenimenti, dinamiche, abitudini, paure, atteggiamenti. Ciò che fa malissimo a me perché va a toccare nervi scoperti e sensibili magari è a sua volta generato da un dolore altrettanto grande che si esprime vomitando una cattiveria, anche piccola, che alleggerisca il carico.
Il mio proverbiale senso di colpa verso tutto e tutti, pesante e persino noioso, si sveglia in un attimo ma quando lo riesco a leggere per quello che è posso zittirlo, dargli una caramella, e continuare a vivere in pace.
Cosa sarà mai una tesi di dottorato, per un percorso senza borsa (e con fior di tasse pagate), davanti a una commissione che tutto sommato non mi ha mai trovato da ridire? Con tutta probabilità sarà una tesi di dottorato, per un percorso senza borsa (e con fior di tasse pagate), davanti a una commissione che tutto sommato non mi ha mai trovato da ridire.
E un intervento di massimo sette minuti nell'ambito di una manifestazione a cui collaboro da anni? Immagino sarà un intervento di massimo sette minuti nell'ambito di una manifestazione a cui collaboro da anni. Uh, e quella visita guidata in una domenica di novembre su cose che conosco stra bene perché le studio da sette anni e che basta rileggerle una volta per ricordarle ancora meglio? Qualcosa mi dice che si tratterà di preparare un giro tranquillo, non troppo complicato, senza fare torti e pestare i piedi, godendomi posti, domande e curiosità.
Inutile provare a leggere il laboratorio del Festival, bambini-mani alzate-occhi grandi-sorrisi...quando mai, quando dico io, è andata male?
E così anche nelle riunioni di lavoro, dove dai, ammettiamolo, c'è chi si sbatte quanto me se non addirittura meno.
Il libro degli amici, lungo e pieno di sottocapitoli, è magari più complicato perché è come un libro-game, scegli una strada ed entri in un mondo ancora più difficile di quello da cui sei partita. Ma cosa c'è da perdere? Gli amici li perdi comunque se vogliono andarsene.
Chi mi raccomanda di relativizzare ha (come sempre o quasi) ragione: leggere la mia vita come un libro, per quanto possa sembrare un comportamento asettico e distaccato, è in questo momento il modo migliore per vedere le cose come sono e capire dove le mie energie, la mia comprensione, il mio amore meritano di essere indirizzati. Va da sè che è pure più semplice guardare con chiarezza "contro" chi o cosa lanciare anatemi o, più "maturamente", dire la mia con convinzione.
Il libro dell'amore invece è tutta un'altra storia, lì si legge, si rilegge, si sottolinea, si guardano le figure, si fanno orecchie alle pagine, si piazzano segnalibri, si piange quando ci si ritrova fin troppo nelle parole che si leggono e si sogna.

P.S.
La foto, che sembra non c'entrare nulla con i contenuti del post, in realtà per me ha un senso: scattata una sera in piazza S. Brigida, durante una proiezione di cinema di montagna, in piena ricerca.
Oggi, alla fine, un giretto nel vento penso lo farò, con questo pezzo nelle orecchie (ah...ho imparato a inserire i link, tanti applausi a me):
Colonna sonora




martedì 1 ottobre 2013

Fuori in 60 minuti

- Una casa nuova su un tetto, con le piante che respirano il mare, il portoncino rosso, le travi sul soffitto e il parquet che se vuoi guardi in casa del vicino di sotto
- Un lavoro trovato e perso senza sapere perché
- Un amore vissuto e finito che ora è felice là fuori
- Un amore mai nato che ora è felice là fuori
- Un'avventura gigante, alimentata con energie, sogni, tempo, speranza, preoccupazioni, tentativi, soldi, contatti e chiusa con un macigno enorme
- Cinque morti: una ammazzata, una arresa, una aspettata, una sorpresa e uno difficile
- Un'amicizia incomprensibile che mi ha fatto malissimo
- Una casa verde, piccola e sicura, nel silenzio e nel movimento, con i peperoncini rossi sul davanzale e le foto degli amici appese alle pareti
- Un circolo di musiche, cene, aperitivi, chiacchiere, balli, film, giochi, sollevato e trasformato in qualcosa di grande e importante
- Una fila di nuovi vicini di casa, quello vicino-vicino, quello sensibile come me, quelli belli e dolci, quelli belli, dolci e quasi in tre, quella con gli occhi blu, quella con i ricci e la bici, quella con i ricci e i ricci
- Un virus che non c'era
- Un virus che c'era e che mi ha stesa
- Un occhio che si è boicottato raccogliendo cose
- Un lavoro a tempo per comprarmi il frigo
- Un nuovo modo di correre camminando e guardando il mare
- Un mese di Toradol terminato con un recupero da manuale
- Un lavoro aspettato e forse meritato che perde valore perché gestito da altri
- Un lavoro piccolo e grande che mi mette alla prova e mi regala la giusta dose di marmocchi
- Una caviglia slogata
- Una chioma cresciuta e poi tagliata
- Un'amicizia importante che ha capito e per questo è rimasta importante
- Un corso di fotografia
- Due campi estivi da infarto del miocardio
- Un vecchio amore del passato che diventa un amico caro
- Un'amica di una vita che si fa in due e poi in tre
- Un percorso verde che è partito in quarta e poi si è assestato sulle corde giuste, almeno per me
- Un dottorato vinto, iniziato, combattuto e quasi finito
- Un Amore grande, che non sapevo si potesse, che è fortuna e fatica, che è silenzio e parole, che è birrascura e birrachiara, che è libri, miele, mare, sentieri, legno, mobili, cibo, sorrisi, pianti, paura, rabbia, lenzuola e abbracci, un milione di abbracci.

Per capire cosa mi tiene immobile è occorso guardare cosa mi ha mosso: far uscire quattro anni in 60 minuti non è stata impresa da poco.
Ed è Ottobre.

sabato 28 settembre 2013

September morn

In realtà non è mattina, ma è settembre, fine settembre.
Vicino a me tutti fanno qualcosa, di bello, di brutto, di utile, di divertente, di stupido, di speciale, di consueto, di interessante, di profondo, di spensierato. Io non faccio nulla.
Però guardo tantissimo, attorno a me, nel cielo, tra le pagine del poco che leggo, sul bus, nelle vetrine dei negozi, dentro i miei pensieri.
Ci sono almeno sette cose che dovrei fare: scrivere la tesi di dottorato, pensare alla visita guidata di novembre, preparare la conferenza di ottobre, organizzarmi per il seminario di dipartimento, lavorare al laboratorio del Festival, far crescere il blog di SDR, costruire dieci ore di power point. Nonostante tutto, non faccio nulla.
E persino scrivere qui ultimamente è diventato una fatica, anche se la parola "fatica" non è la più appropriata. Semplicemente non ne ho voglia, non ne traggo sollievo, non mi interessa, cosa che raramente in questi anni mi è accaduta.
Ho sempre trovato rifugio nell'idea di avere stanze alternative in cui chiudermi al bisogno, orizzonti diversi da quello del lavoro in Università, spazi dove coltivare le mie inclinazioni, dove pensare al passaggio di informazioni ai più piccoli con divertimento e scienza, dove guardare foglie, fotografare alberi, leggere libri sulla natura, senza che le mie paure vincessero su di me.
In questi giorni le stanze sono tutte chiuse e io la chiave l'ho persa. Immagino le cose che ci sono al di là, gli aerei di carta che mi attendono, i romanzi che profumano di pagine nuove, le fotografie di polveri e pigmenti da spiegare e non riesco a muovermi, come se mi avessero colato un secchio di cemento a presa rapida attorno alle caviglie.
Un timido e triste passo indietro, una richiesta d'aiuto indispensabile, mi ha fatto perdere fiducia nelle mie capacità (se mai ne avessi avuta), mostrandomi la realtà travestita da fallimento.
E anche la consapevolezza che tutto questo mio vagare, queste giornate passate a letto stravolta dalla stanchezza di non fare nulla, queste sere in punta di piedi nel silenzio di una casa vuota, siano semplicemente il riproporsi infinito e periodico di una dinamica stranota (a me, a chi mi conosce, persino a chi mi legge), non basta a farmi svegliare dal torpore né a impedirmi di morire di paura.
L'angoscia di ereditare uno scettro dorato, fatto di chiusura e di genetica incapacità alla vita, è troppo difficile da affrontare da sola, è subdola e si allea con personaggi normalmente lontani dal mio cuore, chiamati gelosia, rabbia e rancore.
Mi trasfiguro, non sono io, sono pesante e leggera, profonda e superficiale, divento aggressiva e mi sfugge di mano una dolcezza conquistata dopo anni di freno tirato, che amo tanto esprimere con mille carezze su quella nuca di velluto.
Non mi piaccio e non riesco a piacere, non posso piacere. Mi rivoglio indietro, senza sconti, mi piglierei a schiaffi per farmi svegliare, per farmi vedere le fortune immense che ho, per farmi mettere in moto il cervello, per risolvere velocemente gli obblighi inevitabili e dedicarmi con gioia a quello che mi riesce meglio.
Con i calzettoni al ginocchio, la maxi felpa rosa e la camomilla calda, passo e chiudo da questa stanza vuota.