lunedì 18 marzo 2013

Macchina drogata

[Potrebbe essere utile leggere questo post ascoltando l'album The Idler Wheel is wiser than the Driver of the Screw, and Whipping Cords will serve you more than Ropes will ever do di Fiona Apple, l'ho fatto casualmente mentre lo scrivevo ed è perfetto per creare la tensione necessaria a capire il mio sonno]


Ho dormito tanto, mi sono svegliata per il caldo, avevo mille gocce di sudore in mezzo ai seni.
Sogni di un'angoscia lontana, come non mi accadeva da tempo, così pieni di significato da non dimenticarli nemmeno dopo un po'.
Come spesso mi accade i sogni sono stati un'appendice della realtà, quella che stavo vivendo un attimo prima di dormire.
E quindi il bucato è sparso per la casa, non più in lavatrice dove l'avevo lasciato. I calzini che credevo puliti puzzano e i reggiseni che avevo sistemato nella scatola sono invece umidi, in un angolo del salotto. Che succede? C'è qualcuno in cucina? Devo uscire.
Perché giù nel vicolo qualcosa non va? Perché mi fanno male i piedi? Li guardo quei piedi e le scarpe non sono le mie...io non ho stivaletti bordeaux a punta, non porto il 39, quelle scarpe non sono le mie...ma io sono io?
Torno indietro, mi serve uno specchio, ma non riesco a camminare...salto. Salto scoordinata, sgraziata, come una goffa bimba felice. Dietro di me tante voci, c'è un'operatrice della TV con una telecamera, che racconta agli spettatori questo angolo di Genova, con lei almeno venti persone con i microfoni, di quelli lunghi e pelosi, che si drizzano verso le finestre e captano tutto.
Ok, ragione di più per chiudermi in casa e controllare di essere veramente io. Oddio, ho preso le chiavi? Sì ce l'ho. Pfiu.
Ma non girano nella toppa, non aprono il portoncino verde. Perchè? Perché il portoncino non è verde, non è casa mia questa. Dove sono?
Il posto lo conosco, sembra quello dove ho passato gli anni della mia adolescenza, sempre vicoli stretti ma lontano da qui. Devo trovare casa, devo camminare.
Un signore anziano si offre di aiutarmi, mi dice che non ci conosciamo ma che in fondo io so chi è lui, mi tocca e si scusa, forse la mia casa l'ha spostata lui per sbaglio l'altra sera. Devo continuare a cercare, magari se passo dalla piazza mi oriento meglio. Ma come sono vestita? Dove sono finiti gli stivaletti? Perchè indosso una salopette con i pantaloni corti e le Superga verde acqua di quando ero bambina? Ho la calza elastica sul polpaccio sinistro, non posso essere piccola, sto anche fumando una sigaretta.
Infilo Vico Parodi automaticamente, come a quindici anni, sulla mia sinistra due vecchi amici bevono una birra, ma ho fretta e fingo di non vederli. A metà della strada buia e puzzolente alzo gli occhi e vedo due persiane socchiuse, incastrate tra gli scuri una di fronte all'altra ci sono due foto. Mio padre e Io. Li ho messe lì io quelle fotografie? Non ricordo. Perché lui è senza barba e ha il naso a punta? Sembra quella lapide che ho visto al Verano l'altro giorno. Io sorrido e ho gli occhi spalancati, porto il grembiule dell'asilo con il mio nome ricamato sul colletto. Rivoglio quelle foto, ma non posso suonare alle porte adesso, prima devo trovare casa mia.
Ricomincio a camminare verso la stazione, ci sono delle signore che parlano e una dice all'altra che deve trovarsi un compagno più bello, non come l'ultimo che era brutto e sgradevole. Ma la sua amica non vuole, preferisce stare da sola. Proseguo oltre, sono quasi in stazione, qui c'era il veterinario dove venivo da piccola con il siamese. Ma sono a venti chilometri da casa, come farò a trovare il portoncino verde così lontano? Ho caldo e ho fretta. Ho caldissimo. Un treno fischia.
Mi sveglio.
Non ho più trovato casa mia.

P.S. Il titolo si riferisce ad un'opera di Vincenzo Agnetti, vista questa mattina nei depositi del museo di arte contemporanea della mia città. Questo lavoro mi ha colpita molto, mi ha commossa. Chissà che, in qualche modo, lavorando in profondità, non abbia condizionato il mio sonno.

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