venerdì 25 ottobre 2013

Il Dio delle piccole cose

Secondo giorno di Festival, primo giorno di ciclo in anticipo di un sacco, quarta ora di letto tra sonno, scrittura e pensiero. Devo mettermi in testa di lavorare al seminario per la prossima settimana, devo cercare di rilassarmi davanti alla tesi in ritardo mostruoso, perché per entrambe le cose l'unica soluzione è questa: lavorarci/rilassata. Senza isterismi, paranoie e crolli emotivi. E' solo che sono cose grosse (dal mio punto di vista, è naturale, vallo a dire a un bambino Afghano)e io, é inutile, non riesco ad affrontarle. In quelle piccole ci vivo: un sottobicchiere, una coperta, una colazione con un'amica un po' triste, una telefonata alla mamma, una "cena altrove", un libro bello, una ricetta nuova, un sentiero di terra e pietre, una collaborazione minuscola per un blog scoperto da poco ma portatore di quell'incanto delicato che piace a me. Del resto, quando ero piccola mi innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani, come canterebbe il buon Faber e ora non riesco ad arrendermi davanti alla soluzione così chiara e sicura che prevede di lasciare un po' perdere le piccole cose per dedicarmi a quelle più grandi. Progetti, scadenze, possibilità che hanno un grande difetto: l'imprescindibile condizione che io ci creda e che creda in me stessa. Giammai. E allora chiedo ancora aiuto a De André, che di solito ascolta e risponde, non regalate terre promesse a chi non le mantiene, mi sta dicendo e io sono d'accordo: la metà delle cose che non faccio restano in potenza perché non mi fido e mi difendo con i denti da chi mi promette e mi frega. Questo lo faccio da sempre e, vaffanculo, sempre lo farò, magari però un po' di discernimento in più non guasterebbe, ogni tanto. Dopotutto ho voltato la carta milioni di volte sul mio percorso, quando leggo il curriculum al contrario trovo questo: babysitting, ripetizioni, interviste di mercato, cameriera, animatrice, educatore ambientale, imprenditrice, collaboratore di redazione e forse qualcosa si é pure perso tra le righe e nel tempo. Di tutte queste avventure iniziate, continuate, concluse, quello che ricordo con un mezzo sorriso sono le piccole cose, i pomeriggi sul divano con le mie bimbe sorelle della mattina, il buio sui vetri dell'altra casa della sera, il primo sei di inglese di Chiara, le domeniche a ridere in cucina, i libri di storia dei fratellini ricchi, il ponteggio che oscilla su Genova, i pagamenti in marmellata, la costa calabra avvolta nella coperta di Campopisano con il gelo nelle dita e l'attesa nel cuore, la fila di cappellini colorati sui sentieri delle Cinque Terre... con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia ma colpisco un po' a casaccio perché non ho più memoria. Chissà se mai riuscirò ad accantonare queste piccole emozioni, perché forse la vera soluzione che prevede di salvare bimbo acqua catino moglie ubriaca botte piena capre e cavoli e tutte le possibili combinazioni continua ad essere troppo distante per me. Aprirmi ai grandi progetti pensando anche alle piccole cose è come dire mettersi il rossetto rosso rimanendo sobrie ed eleganti, c'è chi ci riesce, per carità, ma non è cosa da tutti.
Non é cosa da me.
E allora, se devo cambiare, al "Dio delle piccole cose non credere mai", anche se, almeno per stasera, lasciatemi sorridere con questo

martedì 22 ottobre 2013

Un viaggio con lei

Raro post della pausa pranzo, giusto un attimo prima di riprendere la lettura dei soliti articoli in inglese.
Questa mattina sono salita in ufficio più tardi, alle nove avevo terapia e quindi prima delle dieci e mezza non sono riuscita ad arrivare. A colazione mi sono concessa una brioche che con la birra di ieri sera fanno un po' troppi lieviti in meno di ventiquattro ore, ma pazienza.
Per andare nello studio devo prendere il solito bus, il 44 e scendere dalla piazza. Il tragitto è breve se non fosse che alla mattina la zona che attraversa è terribilmente trafficata, quindi ci vogliono almeno una decina di minuti per arrivare a destinazione. Sono riuscita a sedermi nell'ultimo posto disponibile, uno di quelli in coda, che basta una frenata per ritrovarsi a correre in mezzo all'autobus. Chissà a cosa ho pensato, so solo che a un certo punto mi sono alzata per avvicinarmi alla discesa, ed è lì che l'ho vista. Non so da quanto mi stesse osservando, stava ferma, un po' pallida, e mi guardava con quegli occhi grandi, giovani e chiari. Vicino alle porte centrali, seduta composta con la borsetta in grembo, c'era mia nonna, materna. In verità quella donna di mia nonna aveva solo lo sguardo, l"intonazione" dello sguardo, profonda, dura, tenace, un po' giudice forse, ma con un velo sottile di benevolenza. Mia nonna Rosetta è morta che avevo 8 anni e me lo ricordo. Ricordo che i miei mi lasciarono da Elisa, un'amichetta delle elementari, per qualche giorno, il tempo di permetterle di morire in pace e di organizzare i funerali. Ricordo che mi dissero che era caduta e che si era rotta il naso, per anni ho pensato che rompersi il naso fosse una cosa molto grave, per cui si potesse anche morire, a volte.
Il giorno del funerale andai in giro con Maura, la mia babysitter, c'erano i manifesti funebri attaccati per il paese e io cercavo di leggerci il mio nome, ora non so più dire se lo avessi trovato. Ricordo di non aver visto mia mamma piangere, ma ricordo che da Elisa venne a riprendermi anche papà, con la giacca di renna, e capii subito che la nonna non l'avrei più rivista. Quella sera mangiammo bresaola.
Con il senno di poi capisco la scelta di un pasto già pronto, probabilmente comprato al super all'ultimo minuto, dopo giorni di flebo, ricambi, camici e scelte.
Negli anni le cose mi sono state raccontate meglio, mi è stato spiegato il forte dimagrimento della nonna negli ultimi mesi, il suo pudore nel chiedere aiuto e lasciarsi curare, i suoi silenzi, la sua caduta, il suo naso rotto.
Qui ho sempre scritto poco di lei, una delle tante donne di quel ramo della famiglia, forse ho raccontato del suo affanno quando mi portava con sé al mercato, dei suoi capelli lunghissimi e grigi raccolti in un muccio perfetto ogni mattina. Non l'ho mai vista con i capelli sciolti, è un'altra cosa che mi hanno raccontato dopo, ho sempre creduto che li avesse così da quando era nata. Mia nonna vestiva sempre di scuro, senza essere a lutto, ma forse se si perde un fratello ragazzo, partigiano ucciso in un'imboscata a guerra praticamente conclusa, si resta in lutto tutta la vita. Mia nonna, a modo suo, ha sopportato mio nonno, e questo fa di lei, ai miei occhi, una martire...comunque siano andate le cose e nonostante la sua presenza nella mia crescita probabilmente abbia fatto molti danni. Mia nonna era alta, grande, con delle spalle larghissime e un sorriso dolce, a labbra chiuse, per non mostrare i pochi denti rimasti. Ricordo che da piccola la chiamai una volta Gargamella e la mamma mi rimproverò, dicendomi che non dovevo offenderla. Le davo i baci sulle guance morbidissime, ma molto raramente, la mano invece me la stringeva spesso e la sua era robusta, ossuta e forte. Di mia nonna ricordo perfettamente la voce, cosa che per anni, di mio padre, non ho ricordato, nonostante fosse una sua caratteristica distintiva. L'insistenza con cui la signora sul bus mi guardava mi ha messo a disagio, sembrava volermi rimproverare, sembrava volermi ricordare qualcosa di importante su cui riflettere. Forse per questo, nell'ora di terapia, abbiamo parlato a lungo di cose della mia infanzia e anche di mia nonna. Da mia nonna ho ereditato qualcosa, ma non so cosa, forse il suo stare in silenzio davanti alle cose sbagliate, sicuramente non la tenacia, né l'aspetto. Di mia nonna ho ereditato anche il mio problema di coagulazione, nella foto quassù, sulla sinistra, c'è anche lei con la gamba fasciata proprio come la mia. Lì, mentre riempivo l'annaffiatoio per dare l'acqua ai suoi fiori, lei mi sorvegliava in disparte, in silenzio, probabilmente osservandomi con quello sguardo strano.

lunedì 21 ottobre 2013

Un gatto che miagola

Oggi è iniziata con un gatto che miagola.
Non so che ore fossero, le sei forse, mi sono svegliata perché credevo di essere da mamma e pensavo che quel miagolio fosse di Agata. Ho aperto gli occhi, tastato le lenzuola attorno a me, guardato nella penombra e mi sono resa conto di essere sull'Albero, mi sono riaddormentata e ho sognato. Ho sognato di affacciarmi a una finestra, sopra a un piccolo giardino, dove una gatta nera chiamava il suo piccolo perso...miao, faceva, miao. Niente, mi sono svegliata di nuovo e sono rimasta lì, intristita per questa mamma preoccupata e per questo piccolo nei guai.
Una giornata iniziata così non può che essere di merda, anzi, dimmerda.
Dimmerda perché piove e il tuo pensiero felice comincia subito ad essere la finestra di "beltempo" in cui ritirare il bucato e metterlo disteso sul divano, che tristezza.
Dimmerda perché ti scambiano per una zoccola, in pieno giorno, sotto un palazzo pieno di uffici, solo perché sei da sola e in piedi, solo perché indossi un paio di stivali, solo perché se sei un vecchio maledetto su un'auto scura e impomatata, ti pare normale girare per la città e guardare con la faccia del "che cazzo fai, non sali?" la prima ragazza sovrappensiero che aspetta di caricare un furgone e rimettersi al lavoro.
Dimmerda perché di piovere non smette quasi mai, perciò ti tocca sdraiare i vestiti umidi sul divano col terrore mortale del puzzo di cane bagnato che incombe.
Dimmerda perché sei confusa, in ritardo, perché non ti incontri minimamente con i pensieri di chi ti sta intorno, perché non fai altro che pensare ai batteri solfatoriduttori dei quali devi parlare per poco meno di un'ora la prossima settimana.
Dimmerda perché non stai facendo le cose come vorresti, perché appena ti siedi un attimo per cucinarti uno schifosissimo tofu con l'insalata, alla radio passano Emma, Mengoni, Pausini/Minogue giusto nel tempo in cui ingoi un pranzo immondo alle due e mezza del pomeriggio.
Dimmerda perché devi caricare su Facebook l'album dell'allestimento Festival e il link al nuovo blog di SDR e scopri, sconcertata, che nelle tua ora libera si sta verificando il baco più grosso del sistema mondiale e il tuo profilo è uno di quelli bloccati.
Dimmerda perché arrivi in tempo per recuperare maglia-badge-contratto, in tempo per prenderti una secchiata d'acqua e provare a infilarti, in ritardo, a pilates, nel vano tentativo di rilassarti. Si sa, fare attività fisica con lo scazzo cosmico e tutti i muscoli contratti aiuta, sì, ad uscire idrofoba desiderando soltanto di roteare una katana davanti alla faccia di tutti quelli che ti salutano.
Dimmerda perché l'enel, per riattivare la luce nella scala del tuo condominio impiega 48 ore, più 10 giorni. E quindi le scale le devi fare al buio, la serratura la devi cercare al buio e gli stinchi sugli scalini li devi sbattere al buio.
Dimmerda perché per cena c'è di nuovo tofu. E riso. In bianco. Ed è troppo...davanti a tutto quel pallidume è davvero troppo e allora col pile giallo senape (l'eterno), i leggings del pilates, gli stivali (no, non sono una zoccola), esci di casa. Entri nel locale sempre aperto, di lunedì martedì mercoledì giovedi venerdì sabato domenica, a colazione pranzo cena dopocena notte fonda, e chiedi una birra. Un signore gentile ti guarda compassionevole, guarda il tuo impermeabile con i bottoni rosa, i tuoi stivali (ancora???), l'odore del tofu che ti porti dietro e apre il frigo mostrando una serie di bottiglie fresche. Hanno la Modelo Especial. La Modelo Especial significa ristorante messicano, significa 35.5 cl dorati e leggeri (mica 33!), significa che mangiare alle dieci una roba orribile diventa possibile, con due biscotti al cioccolato diventa quasi buono.
Quindi, morale della favola, se senti miagolare un gatto, nel dubbio, comprati una birra.
(Per inciso, alla radio ora passano Cat Stevens)

venerdì 18 ottobre 2013

La rossa

Serata da blogger, oggi. Un nuovo progetto che è ancora presto per parlarne, gli occhi che bruciano e il cuore risollevato da un pomeriggio fertile per la mia autostima. Conferenza su parte del lavoro che sto svolgendo in Università andata bene, meglio del previsto, non tanto per il successo avuto quanto per le conferme circa l'esattezza delle analisi che faccio, arrivate come un fulmine al ciel sereno dalla presentazione dopo la mia. E c'è persino la possibilità che io abbia accesso a quei dati per confrontarli con i miei e inserirli in tesi...incredibile.
Ma non è di questo che voglio scrivere, né del Festival in arrivo, né delle grandi scadenze vicine in maniera inversamente proporzionale al tempo che ho a disposizione per organizzarmi.
Stasera, prima di rannicchiarmi sotto al piumone, voglio raccontare la domenica che ho trascorso ormai quasi una settimana fa. Non è successo nulla in particolare per la verità, ma ho vissuto una serie di piccole situazioni che sembravano simboleggiare il mio percorso.
Alzata presto con mamma ho infilato le scarpe da trekking, la felpa verde e siamo uscite di casa, direzione Marcia delle Lische. Questa camminata amatoriale, organizzata tutti gli anni nell'infame stagione autunnale (che peraltro io amo moltissimo!), si snoda lungo una serie di sentieri che conosco e che frequento, non troppo di rado, con Andrea.
La salita verso la Baiarda, le Lische Basse e quelle Alte, i Piani di Pra', sono tutti luoghi dei quali in qualche modo ho parlato anche qui. Le volte che avete trovato alberi, terra rossa, mantidi religiose, piedi che camminano silenziosi davanti ai miei, spesso si trattava proprio di quei posti.
Quindi, l'altra mattina mi sono preparata per una salita, a modo mio, con un po' di entusiasmo e con il pessimismo che mi contraddistingue piantato su quelle nuvole nere a cappello sui sentieri.
Colazione, iscrizione e marcia. Appena partite tappa dagli zii, un caffè al volo, due parole sul tempo in peggioramento e via di nuovo, io e mamma da sole. Da questo momento in poi solo qualche battuta ogni tanto, il fiato risparmiato per il cammino, la sosta al ristoro alla ricerca di acqua e cioccolata, la strada che diventa sentiero e si fa più ripida. Io davanti e lei dietro, i ruoli invertiti rispetto alle mie abitudini "di montagna". La via ogni tanto si interrompe per attendere, accanto a cespugli freschi di taglio che mi pare di riconoscere uno ad uno, sulla vetta sembra che piova e noi optiamo per il percorso intermedio, "la rossa", sperando di scansare aria, acqua e risparmiarci qualche difficoltà.
Ed è in mezzo all'erica di due colori che il vento mi porta una voce: io lo so che è la sua perché mai la confonderei, ma non si vede nessuno all'orizzonte. Basta camminare ancora un poco, svoltare la curva e Andrea è lì di vedetta, che controlla, davanti al mare lontano, che nessuno si perda imboccando una via sbagliata. Un sorriso, anche due, le battute del cacciatore di compagnia e il braccio che si tende, mi dice dove la mia strada si staccherà dal percorso lungo e mi indica il vento sulla pala eolica, fa freddo laggiù.
Da qui in poi è discesa, la mamma mi saltella dietro, io trovo una mantide religiosa senza testa (la prima!) e penso al prezzo salato che si paga a volte per amare qualcuno. Mi sento felice e realizzo in un attimo quanto quella mattina somigli alla mia vita, fatta di preparazioni, salite, piccole soste veloci, previsioni, cambi di programma, rinunce. E' la vita di tutti, no?
Ancora qualche chilometro e ricomincio a riconoscere i posti, stiamo arrivando all'ingresso del sentiero per la Baiarda nel verso in cui lo imbocco io di solito, la polenta calda e il vino rosso sono vicini e solo il cielo sa quanto ci facciano piacere in mezzo a quel freddo polare. Andrea aveva ragione, la pala diceva "vento" e lui, come da un sacco di tempo ormai, a modo suo, mi ha indicato la strada. Mettendoci un sorriso.

sabato 12 ottobre 2013

70

La mamma oggi sta preparando lo stoccafisso accomodato e, conoscendola, sta pensando che non è venuto bene, che tu l'avresti fatto diverso, che il tuo sarebbe stato più buono.
1943-2013: 70 anni. Oggi è, era, il tuo compleanno, mi sono svegliata incazzata, continuo ad essere incazzata e spero che in giornata, passando a trovarti, sto nervoso se ne vada.
Sono giorni, in verità, che mi lascio avvolgere e guidare dalla rabbia, con il mio modo maldestro di tirarla fuori non mi sto confortando granché, ma sicuramente il non rimuginare in silenzio un poco aiuta a sentirsi meno stupidi e meno immobili. C'è da dire che questa cosa della rabbia inespressa non l'ho proprio presa da te, capace a inveire contro chiunque, dicendo le peggio cattiverie, magari per delle cavolate senza senso, per poi sparire qualche giorno e tornare come se non fosse assolutamente accaduto nulla. Io zero. Io istintivamente faccio il contrario, non dico niente per mesi, me ne sto zitta zitta e poi bon, chiudo tutto e non ci sono richieste di spiegazioni che tengano. Bel modo di merda pure il mio, di risolvere le cose e i conflitti.
In mezzo ci sta, come al solito, il comportamento virtuoso, tipo quello di mamma che se qualcosa non va te lo dice, magari anche male, magari anche straccionandoti, ti fa capire (molto chiaramente) il suo punto di vista e poi se ti sei offeso pace, ti passerà.
Io invece sembro quei cani che si arrabbiano con la loro coda: me la guardo furente e lascio montare la rabbia per poi scagliarmici contro e cominciare a roteare su me stessa come un'idiota, sbattendo a terra stremata dopo aver inutilmente provato ad strappare quella cosa lunga attaccata alla mia stessa schiena. Perché ce l'ho con me in realtà, con le mie modalità, che piano piano lo so, stanno migliorando, ma che mi costano ancora una fatica immane e producono pochi risultati se li compariamo al disagio che provo ogni volta che dico cosa penso.
Se tu vedessi il modo in cui gestisco i miei rapporti di lavoro, per esempio, ti uscirebbe senza dubbio una delle tue più tipiche frasi della domenica: "Come fai ad essere così scema?" oppure, ancora più in linea con il tuo stile, mi diresti candidamente che sono troppo "abelinata" e che mi sta bene se vengo trattata a pesci in faccia senza che chi si raffronta con me abbia il minimo scrupolo di coscienza.
E scrivo dei rapporti di lavoro perché sono quelli su cui ritengo di dover agire con la testa, nell'amore l'ho fatto fin troppo in questi anni, il mio compito ora è quello di usare pancia e cuore per vivere gli affetti, l'Affetto, senza freni stupidi e con più spontaneità possibile.
Non so cosa penseresti di me se fossi ancora qui, chissà se comprenderesti la mia totale incapacità a gestire i guai di salute miei e degli altri (io dico di sì, visto che in questo eri davvero una frana), non so se staresti invecchiando in maniera un po' più serena o avresti continuato a rimanertene chiuso con i tuoi fantasmi.
Io, putroppo, ti sento sempre più lontano, ti sogno ormai poco, è come se avessi voltato l'angolo e fossi sparito in mezzo alla gente. E per quanto sia consapevole che è giusto così, che lasciarti andare è un gesto sano e pieno di speranza, che chiudere un poco con il passato vuol dire aprirsi al futuro, nonostante tutto questo, mi dispiace.

lunedì 7 ottobre 2013

Nel mare ci sono i coccodrilli

La lingua, Enaiat. Mentre parli e racconti penso che non stai usando la lingua che hai imparato da tua madre. Al serale, adesso, stai studiando la storia, le scienze, la matematica, la geografia, e stai studiando quelle materie in una lingua che non è quella che hai imparato da tua madre. I nomi dei cibi non sono nella lingua che hai imparato da tua madre. Scherzi con gli amici in una lingua che non hai imparato da tua madre. Diventerai uomo in una lingua che non hai imparato da tua madre. Hai acquistato la tua prima macchina in una lingua che non hai imparato da tua madre. Quando sei stanco, ti riposi in una lingua che non hai imparato da tua madre. Quando ridi, ridi in una lingua che non hai imparato da tua madre. Quando sogni, non lo so in che lingua sogni. Ma so, Enaiat, che amerai in una lingua che non hai imparato da tua madre.
Alla fine di una giornata iniziata in salita e continuata sonnecchiando e torcendomi dal mal di stomaco, terminare questo libro è stato un dono. A pochi giorni dalla disgrazia (l'ennesima) dei morti in mare a Lampedusa, invece delle mille parole incontrate ovunque, stupide, retoriche, offensive, cattive, convenienti, sensate, immonde o dignitose, bastava leggere "Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari".
E bastava anche stamane in sala d'attesa, oggi pomeriggio sulla bilancia, stasera davanti alla cena.
Tutti i bambini dovrebbero sapere, tutti i figli dovrebbero conoscere, storie come questa. Filippo che gioca in piazzetta con Ginevra e gli altri, le "bebè a bordo" appiccicate sulla macchina rossa che ho visto al tramonto, la bimba bionda che tiene la mano del nonno elegante per andare all'asilo.
Dovremmo leggerlo, tutti, io probabilmente più degli altri. Quando mi sento scomoda sul 44, visto che non ho mai dovuto viaggiare nel doppiofondo di un camion alto 50 cm, con decine di persone, senza cibo né acqua per giorni. Quando mi dà noia la palla dei vicini mentre mi rilasso in spiaggia, dato che non ho mai navigato nella notte su un gommone bucato senza sapere dove sono. Quando nel parco ci sono troppe zanzare, dal momento che che non ho mai dormito su una panchina, tra cani randagi e pedofili. Quando fatico a lasciarmi amare da chi mi conosce e vede il mio valore, visto che non sono mai finita in una famiglia straniera, diversa in cultura, abitudini e lingua, che a un mio gesto sbagliato, a una mia parola incompresa, a un mio sguardo difficile, avrebbe potuto decidere di rimandarmi sotto al camion, sul gommone o nel parco di notte.

sabato 5 ottobre 2013

Imparare a leggere

Agata dorme nella stanza accanto e io ho un mal di testa fotonico che mi ha costretto ad accantonare in un attimo l'idea di fare due passi in mezzo alla forte Tramontana autunnale di stamattina.
Mentre aspetto lo squillo di mamma per mettere a cuocere le patate al rosmarino rifletto un po' (tanto per cambiare) sulle strategie di sopravvivenza che sto attuando in questo periodo, per lo meno su quelle che sembrano funzionare.
Ho imparato a leggere, o meglio, sto imparando a guardare le cose che capitano a me e agli altri, per quello che sono. Tutto ha un significato preciso, ma contemporaneamente ne ha mille diversi. Certi comportamenti, certe battute, certi sguardi, certe decisioni, sono figli di avvenimenti, dinamiche, abitudini, paure, atteggiamenti. Ciò che fa malissimo a me perché va a toccare nervi scoperti e sensibili magari è a sua volta generato da un dolore altrettanto grande che si esprime vomitando una cattiveria, anche piccola, che alleggerisca il carico.
Il mio proverbiale senso di colpa verso tutto e tutti, pesante e persino noioso, si sveglia in un attimo ma quando lo riesco a leggere per quello che è posso zittirlo, dargli una caramella, e continuare a vivere in pace.
Cosa sarà mai una tesi di dottorato, per un percorso senza borsa (e con fior di tasse pagate), davanti a una commissione che tutto sommato non mi ha mai trovato da ridire? Con tutta probabilità sarà una tesi di dottorato, per un percorso senza borsa (e con fior di tasse pagate), davanti a una commissione che tutto sommato non mi ha mai trovato da ridire.
E un intervento di massimo sette minuti nell'ambito di una manifestazione a cui collaboro da anni? Immagino sarà un intervento di massimo sette minuti nell'ambito di una manifestazione a cui collaboro da anni. Uh, e quella visita guidata in una domenica di novembre su cose che conosco stra bene perché le studio da sette anni e che basta rileggerle una volta per ricordarle ancora meglio? Qualcosa mi dice che si tratterà di preparare un giro tranquillo, non troppo complicato, senza fare torti e pestare i piedi, godendomi posti, domande e curiosità.
Inutile provare a leggere il laboratorio del Festival, bambini-mani alzate-occhi grandi-sorrisi...quando mai, quando dico io, è andata male?
E così anche nelle riunioni di lavoro, dove dai, ammettiamolo, c'è chi si sbatte quanto me se non addirittura meno.
Il libro degli amici, lungo e pieno di sottocapitoli, è magari più complicato perché è come un libro-game, scegli una strada ed entri in un mondo ancora più difficile di quello da cui sei partita. Ma cosa c'è da perdere? Gli amici li perdi comunque se vogliono andarsene.
Chi mi raccomanda di relativizzare ha (come sempre o quasi) ragione: leggere la mia vita come un libro, per quanto possa sembrare un comportamento asettico e distaccato, è in questo momento il modo migliore per vedere le cose come sono e capire dove le mie energie, la mia comprensione, il mio amore meritano di essere indirizzati. Va da sè che è pure più semplice guardare con chiarezza "contro" chi o cosa lanciare anatemi o, più "maturamente", dire la mia con convinzione.
Il libro dell'amore invece è tutta un'altra storia, lì si legge, si rilegge, si sottolinea, si guardano le figure, si fanno orecchie alle pagine, si piazzano segnalibri, si piange quando ci si ritrova fin troppo nelle parole che si leggono e si sogna.

P.S.
La foto, che sembra non c'entrare nulla con i contenuti del post, in realtà per me ha un senso: scattata una sera in piazza S. Brigida, durante una proiezione di cinema di montagna, in piena ricerca.
Oggi, alla fine, un giretto nel vento penso lo farò, con questo pezzo nelle orecchie (ah...ho imparato a inserire i link, tanti applausi a me):
Colonna sonora




martedì 1 ottobre 2013

Fuori in 60 minuti

- Una casa nuova su un tetto, con le piante che respirano il mare, il portoncino rosso, le travi sul soffitto e il parquet che se vuoi guardi in casa del vicino di sotto
- Un lavoro trovato e perso senza sapere perché
- Un amore vissuto e finito che ora è felice là fuori
- Un amore mai nato che ora è felice là fuori
- Un'avventura gigante, alimentata con energie, sogni, tempo, speranza, preoccupazioni, tentativi, soldi, contatti e chiusa con un macigno enorme
- Cinque morti: una ammazzata, una arresa, una aspettata, una sorpresa e uno difficile
- Un'amicizia incomprensibile che mi ha fatto malissimo
- Una casa verde, piccola e sicura, nel silenzio e nel movimento, con i peperoncini rossi sul davanzale e le foto degli amici appese alle pareti
- Un circolo di musiche, cene, aperitivi, chiacchiere, balli, film, giochi, sollevato e trasformato in qualcosa di grande e importante
- Una fila di nuovi vicini di casa, quello vicino-vicino, quello sensibile come me, quelli belli e dolci, quelli belli, dolci e quasi in tre, quella con gli occhi blu, quella con i ricci e la bici, quella con i ricci e i ricci
- Un virus che non c'era
- Un virus che c'era e che mi ha stesa
- Un occhio che si è boicottato raccogliendo cose
- Un lavoro a tempo per comprarmi il frigo
- Un nuovo modo di correre camminando e guardando il mare
- Un mese di Toradol terminato con un recupero da manuale
- Un lavoro aspettato e forse meritato che perde valore perché gestito da altri
- Un lavoro piccolo e grande che mi mette alla prova e mi regala la giusta dose di marmocchi
- Una caviglia slogata
- Una chioma cresciuta e poi tagliata
- Un'amicizia importante che ha capito e per questo è rimasta importante
- Un corso di fotografia
- Due campi estivi da infarto del miocardio
- Un vecchio amore del passato che diventa un amico caro
- Un'amica di una vita che si fa in due e poi in tre
- Un percorso verde che è partito in quarta e poi si è assestato sulle corde giuste, almeno per me
- Un dottorato vinto, iniziato, combattuto e quasi finito
- Un Amore grande, che non sapevo si potesse, che è fortuna e fatica, che è silenzio e parole, che è birrascura e birrachiara, che è libri, miele, mare, sentieri, legno, mobili, cibo, sorrisi, pianti, paura, rabbia, lenzuola e abbracci, un milione di abbracci.

Per capire cosa mi tiene immobile è occorso guardare cosa mi ha mosso: far uscire quattro anni in 60 minuti non è stata impresa da poco.
Ed è Ottobre.