sabato 15 marzo 2014

Between the click of the light and the start of the dream

Oggi è una giornata strana.
Questa mattina ho corso più di un'ora e se non avessi ripensato alle parole lette sulla fibromialgia e a quelle dette dal fisiatra avrei continuato a correre ancora. Al porto era tutto tranquillo o per lo meno così sembrava a me. Una lunga fila di persone, donne per lo più, pronte ad entrare alla fiera di hobbistica, signori con i cani a passeggio, skipper impermeabili che mi seguivano con lo sguardo, qualche turista straniero un po' sperduto davanti a tutto quel mare calmo.
Nelle cuffie la musica che mi accompagna ormai da giorni e la radio che sembra sempre sapere e mi regala i pezzi giusti al momento giusto.
A pranzo la carne di Ste, ho il ciclo e mi serve. Poi metro, poi bus, poi regalo per la "nipotina" in arrivo. Poi bus, poi metro, poi letto, in attesa di incontrare mamma e andare con lei all'inaugurazione della mostra di acquaforti di un'amica.
Belle, una se n'è pure venuta a casa con me, devo solo decidere dove appenderla o posarla, quella sagoma in bilico sul filo, seguita da un gatto un po' goffo e con in mano un palloncino rosso.
Quest'oggi navigando in rete mi sono imbattuta in una lettera, questa, scritta in risposta ad un post meraviglioso, su cui inevitabilmente mi sono trovata a riflettere molto.
Quello a cui ho pensato istintivamente è che il mio approccio alla perdita sia stato più simile al percorso raccontato da Linda Varlese, poi però, soffermandomi con il cuore calmo a leggere le parole di Noah Michelson credo di non essere tutto sommato così distante dai suoi pensieri.
Vorrei provare a riguardarli punto per punto e a vedere se posso farli miei, oppure no.
Intanto la storia è simile, ma si discosta per un aspetto molto importante: mio padre non ha (quasi) mai voluto lottare. Un particolare non da poco per chi si ritrova poi con un lutto da elaborare. Comunque, stessa tosse dell'inferno vero, stesso cancro, nove mesi anziché sei (con una ottimistica previsione di due), ultimi trenta giorni che non si possono raccontare. Lui scrive Quei sei mesi furono i più tristi e strani della mia vita. Li attraversai al rallentatore, è andata esattamente così anche per me. Come anche per me, luglio anziché febbraio, è un periodo bianco, in cui galleggio tra somatizzazioni e crolli accorgendomi solo a giorni passati che si tratta del suo mese, piantato nel mio cervello e nel mio cuore come una puntina da disegno ormai arrugginita: Adesso quando arriva febbraio, un'appiccicosa inquietudine mi cola dal cervello per raccogliersi nel mio petto, e finisco col trascorrere le quattro settimane seguenti oscillando fra la necessità di distrarmi dall'orrore di ciò che accadde durante gli ultimi mesi di vita di mio padre, e il desiderio di cullare quei ricordi, rigirandomeli di continuo nella mente affinché non ne dimentichi mai i contorni frastagliati.
Mio padre non è stato un uomo incredibile come quello di Noah, anche se ognuno ha il suo "senso dell'incredibilità" no? Perciò le seguenti cinque cose su cui rifletterò dopo quasi nove anni posso dire che sì, sono in onore del suo per lo meno bizzarro modo di arrivare, rimanere e andare via da questa terra.
1. Fa' che tutto - tutto - abbia importanza oggi, perché non sai mai che cosa il futuro abbia in serbo per te.
Sembra una frase fatta e forse in effetti lo è, non sono per nulla brava a seguire questo precetto, ma ci provo, ultimamente più che mai, ponendomi meno limiti possibile all'opportunità di assaporare la vita. So bene che dall'oggi al domani le cose possono cambiare, malissimo pure.
2. Affrontare la propria fine porta una certa pace.
Niente, non so cosa significhi. Io il senso di pace nella morte di mio padre non l'ho trovato mai, non in lui per lo meno. Anzi, il poco che ho provato io nelle ultime ore, quando sapevo con una buona dose di certezza che le sofferenze stavano ormai terminando, si è tramutato subito ed è rimasto per anni un gran coagulo di senso di colpa, fermo immobile tra i miei polmoni.
3. Mai sottovalutare il potere dell'arte.
Quanto è vero. Sono riuscita a trovare il bello anche nell'odore dell'alcool dei reparti, anche nelle finestre delle sale d'aspetto, nelle ore rubate tra un turno e l'altro in cui mi concedevo un acquisto frivolo o un gelato che fungesse da colazione, pranzo e cena. A differenza dell'autore del post non ricordo più cosa leggessi in quei giorni, all'inizio preparavo gli ultimi esami all'università, più avanti chiusi pure quei libri e forse non lessi più niente. Né guardai la TV. Aspettavo paziente, con le mani poggiate sulle ginocchia, che riuscisse a dormire, almeno un poco.
4. Tutti meritiamo il diritto di morire.
Certamente, e non smetterò mai di crederci. Nemmeno io ho avuto il coraggio di uccidere mio padre, nemmeno io scorderò mai i suoi occhi che lo domandavano in silenzio. Sono momenti che non si dimenticano mai più e che sono maledettamente utili per crescere, per alimentare il più possibile il punto 1 e vedere il bello ogni volta che si può, ovunque ne abbiamo l'opportunità.
5. L'amore esiste.
In tutte le sue forme. Il cancro di mio padre mi ha mostrato quanto siano diversi quello di una compagna da quello di una figlia, quanto spesso l'ipocrisia venga travestita da amore, quanto anche solo aprire una finestra in una torrida giornata di metà luglio possa rappresentare un enorme gesto d'amore. Il silenzio è amore. Una corsa in moto per non pensare è amore. Un brindisi alla morte è amore.
La possibilità di vedere l'amore in tutte le sue sfumature è stato il regalo più grande che questa storia mi abbia lasciato. La capacità di cogliere questa bellezza non l'ho mai più persa e sono convinta che le persone che vivono accanto a me vengano spesso toccate, anche solo di striscio, da un mio gesto di amore per loro.
Un grande dono, papà.

P.S. Non è fine mese, sono in anticipo con la canzone di marzo, ma questa sono così tanti giorni che la ascolto che non posso proprio non segnalarla: Arcade Fire - No cars go (pure il titolo del post viene da lì)

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