giovedì 31 luglio 2014

QB: che fatica...

Che fatica, signori miei.
Questo è uno dei pochi (forse l'unico?) QB dedicato a Qualcosa di Brutto. Che poi non è neppure una tragedia, intendiamoci, semplicemente sono affaticata. Da cosa? Da tutto. Principalmente dalla lotta con la chimica.
Quando parlo di fatica intendo fisica, non mentale, a quella sono più che abituata. Come l'anno scorso qualche chilo in più ha deciso di venirmi a trovare proprio ora (il mio tempismo con la prova costume è sempre perfetto) e immagino che in parte siano colpevoli i soliti alimenti incriminati che d'estate mi concedo più spesso. La chiusura del dipartimento e quindi l'arrivo delle pseudo ferie si avvicinano, le possibilità di stare a riposo aumentano, eppure sono terribilmente stanca. Ho scoperto che se alla mattina riesco a dormire un poco di più la giornata è gestibile, meno svarioni, meno disagio. Resta il fatto che sempre più spesso sento la necessità di chiudermi nel mio personalissimo "rehab" a ritagliare, dipingere, cucinare, scrivere. Il lavoro è come al solito un argomento un po' delicato, ai rapporti cerco di non pensare, mi compro taccuini bellissimi per organizzare le idee e sogno vacanze al mare o in mezzo alle nebbie del nord.
Sopra a tutto questo è arrivata Lei, prepotente come non mai: la voglia di camminare. Che vista la situazione della mia gamba sinistra non sono neppure abbastanza in forma per darci dentro quanto vorrei, anzi, ma lo sapevo che prima o poi sarebbe successo e avrei cominciato a contemplare l'ipotesi di ricominciare a macinare chilometri in salita, anche da sola se necessario. Se poi qualcuno avesse voglia di dirmi "Ehi, fatti lo zaino che si va" io sarei ancora più contenta!
Poi è vero che due scale mi uccidono, che di correre per ora non se ne parla (domani ci riprovo, a costo di svitarmi il femore) e che tutto quello che il mio corpo sembra desiderare è un materasso. Pure al mare non nuoto, resto sdraiata lì, un po' inutile e un po' in crisi, con un libro da leggere e la borraccia dell'acqua ormai tiepida.
Quindi oggi, dopo un'ora di terapia e un'altra ora dall'osteopata, mi pare di avere un collo lunghissimo e un peso meno duro (o magari semplicemente ormai noto) da sopportare, mi pare di possedere qualche piccolo strumento in più per arrivare a fine giornata, anche quando sono così stanca da non riuscire neppure a scrivere un post o a dipingere una lampadiyna.
[...]
Ecco, per darvi un'idea della stanchezza, mi sono addormentata mentre scrivevo (!) e ho ripreso questa pagina solo dodici ore dopo.
Adesso è mattina, indosso un paio di pantaloni a pois e tra un attimo esco a mangiare all'aperto. Ecco. Sono stanca come non mai, mascara e smalto rosso tentano timidamente inutilmente di darmi un tono, ma io me ne frego e vado avanti. Cià.

martedì 22 luglio 2014

La cura

"The comfort zone is a behavioural state within which a person operates in an anxiety-neutral condition, using a limited set of behaviours to deliver a steady level of performance, usually without a sense of risk. A person's personality can be described by his or her comfort zones. A comfort zone is a type of mental conditioning that causes a person to create and operate mental boundaries. Such boundaries create an unfounded sense of security. Like inertia, a person who has established a comfort zone in a particular axis of his or her life, will tend to stay within that zone without stepping outside of it. To step outside their comfort zone, a person must experiment with new and different behaviours, and then experience the new and different responses that occur within their environment"
Questa è la definizione che Wikipedia scrive sul concetto di comfort zone.
Se si cerca in rete si trovano un sacco di altri documenti, tipo questo, che mi fa sorridere perché proprio oggi ho fotografato la tartaruga dei vicini, nella sua vaschetta in bilico sul davanzale della finestra, pensando quanto fosse dura pure per lei la giornata.
Oggi è difficile perché non sto bene, complice un ciclo-devasto e il caldo umidiccio, ho la pressione bassa e la mia lotta con la chimica è stata complicatissima fino alle due, quando finalmente ho toccato il letto e mi sono messa in salvo.
Ho aspettato il bus cercando un po' di ombra e tentando di ricacciare in gola la nausea e le lacrime che salivano alla velocità della luce senza alcun motivo.
E allora, sotto un albero polveroso, in mezzo al traffico, alla puzza e al rumore, ho scattato la foto quassù e mi sono chiusa nella mia comfort zone. Se leggo qua e là non sembra essere granché positivo il concetto di zona di conforto, perché viene immediatamente legato all'essere immobili, al non provare, al rinunciare ad apprendere.
Io non lo so, mi sembra di essere più d'accordo con Wikipedia, perché in questi mesi è l'aver trovato un'area protetta che mi ha salvata davvero. Uscire meno, uscire meglio. Parlare meno, parlare bene. Una sorta di introspezione che è stata invece un'uscita importantissima, una specie di appuntamento con me. Questa scelta, arrivata spontaneamente in verità, è stata indispensabile per la cura, io che già ero bravissima ad ascoltare il mio corpo, ho dovuto affinare la tecnica e tenermi d'occhio più del solito. In questi giorni in cui pian piano sto togliendo le rotelle è tutto più complicato e alla terapia dell'ascolto devo aggiungere, ancora più spesso, le altre medicine che da gennaio sto assumendo in dosi massicce:
- cucinare (oggi ho persino preparato la mia prima maionese, e l'unica impazzita, in cucina, ho continuato ad essere solo io!)
- leggere (due libri alla volta, con il progetto delle foto pantonelibronuovo e le recensioni puntuali)
- fare pilates (con più costanza possibile)
- cimentarmi in piccoli lavoretti fai da te (le lampadiyne ne sono un esempio)
- ascoltare musica ogni volta che posso, accostando il genere giusto al momento giusto
- dormire (tanto, spesso, bene)
- mangiare (con qualche sgarro in più ma con molta cura nella preparazione dei piatti)
- pensare (pochissimo, il meno possibile)
- scrivere (con una costanza commovente, che mi rende felice)
- andare oltre (a tutto quello che mi fa male, a tutte le persone che mi feriscono, a volte pure volontariamente)
Quindi, alla faccia delle teorie che vedono la comfort zone come un'area da cui uscire, come una restrizione che impedisce la crescita, io questa zona di conforto ho deciso che la arredo. Allegria.

venerdì 18 luglio 2014

La zona cieca

Quando mamma, dopo averlo letto, mi ha passato questo libro le ho chiesto un parere. Lei, sorridendo, mi ha risposto: "E' una sega mentale infinita, quindi ti piacerà".
Beh, si sa, le mamme hanno sempre ragione e "La zona cieca" ora sta in buona compagnia nella nicchia della camera da letto. Si è guadagnata, cioè, una postazione d'onore, quella riservata ai libri che in un modo o nell'altro porto nel cuore e quindi sempre con me. E' il secondo romanzo della Gamberale che leggo e in qualche modo ha qualcosa in comune con il primo, innanzi tutto i personaggi che qui sono i protagonisti e che ne "Le luci nelle case degli altri" facevano parte dei vicini di casa di Mandorla.
In un certo senso, dunque, ero già un po' affezionata a Lorenzo e Lidia, ritrovarli con le loro (enormi) difficoltà di coppia è stato un po' come avere notizie di due vecchi amici che non sentiamo da tempo.
Le seghe mentali ci sono, eccome, ma proprio per questo più che un romanzo definirei "La zona cieca" una sorta di saggio. Nulla di pretenzioso eh, né probabilmente da parte di chi lo ha scritto né da parte mia che ne porto un parere qui, sul mio blog.
Comunque, difficoltà ad amare e prima ancora ad amarsi. Perché senza amarsi non si ama, questo ormai lo so persino io. Il problema grosso sta nel fatto che spesso, troppo spesso, senza amarsi e soprattutto senza sentirsi amati non si ama. E non dovrebbe andare così. Dico dovrebbe perché sono campionessa mondiale, anzi regina, di questa incapacità, ma tanto (tanto) lavoro su di me e tante (tante) seghe mentali, come le chiama mia madre, sembrano fare effetto, sembrano funzionare.
Lo dimostra il pic nic che sto facendo stasera sul tappeto della sala: spezzatino, luce soffusa, birra, buonamusica, e finestra socchiusa quel tanto che basta per sentire i bimbi che giocano in piazzetta, le signore che chiacchierano, i cani che abbaiano.
Nel libro tutto questo manca, manca la quotidianità serena e tranquilla, da vivere soli oppure in coppia, perché sia Lidia sia Lorenzo sono troppo impegnati a capire e capirsi, a odiare e odiarsi, a soffrire e far soffrire. Gesti eclatanti, routine, dichiarazioni, lettere, scoperte, solitudini, tutte componenti inutili se prima non si impara a conoscersi e a volersi bene così come si è, guardando le proprie caratteristiche per quello che sono, ovvero "semplici" caratteristiche, né pregi né difetti.
E questo mio essere salita in cattedra, come se avessi capito e compreso tutto, mi dà così noia che la pianto qui, consigliando "La zona cieca" a chi ha la sensazione che gli altri ci vedano molto di più e molto meglio di come ci vediamo noi, guardando anche in quelle zone, cieche per l'appunto, che non dubitiamo neppure di avere.
Buona serata con Ray, stranamente spensierato come me.

martedì 15 luglio 2014

Adesso però vattene

Oggi, 15 luglio 2014, dichiaro ufficialmente chiusa la battaglia. Basta, la guerra è finita. Sei "uscito a comprare le sigarette" nove anni fa e non sei più tornato. Non è che ci sia molto da aggiungere.
Grazie alla mia proverbiale capacità di rimozione io non ricordo quasi nulla di quel giorno, dei giorni dopo e neppure di quelli a venire, tanto che stamattina ho chiesto a un amico se lui suo padre morto se lo ricorda, tanto che poco fa mi sono messa a spulciare i mesi di luglio degli anni passati su questo blog.
Nel primo raccontavo tutto, con molto distacco magari, perché intanto i particolari li ho tirati fuori tutti parecchio tempo più avanti, nero su bianco, lontano dai riflettori. Nel 2011 c'era la novità del mareincucina, mentre sia il 2012 sia il 2013 sono trascorsi senza che il 15 luglio entrassi qui.
Oggi, invece, all'inizio del decimo anno di assenza, io ti saluto.
Saluto tutto quello che mi ricordo e tutto quello che non mi ricordo. Saluto ciò che mi ha insegnato essere tua figlia e ciò che mi ha tolto. Saluto la tua barba lunga e folta, i tuoi occhi verde acqua, i tuoi baffi gialli di nicotina, il tuo sorriso sornione come il mio, il tuo naso perfetto, il tuo corpo pesante, la tua pelle bianca, la tua nuca che guarda il mare, i tuoi sandali improbabili, le tue tute che lasciamo perdere, la tua pancia, la tua voce monocorda, i tuoi denti un po' così, i tuoi interminabili silenzi, le tue cene impareggiabili, i tuoi diciottomila caffè, i tuoi sonni lontani, il tuo gusto per il bello, le tue radio che parlano nel vuoto, i tuoi fiori, il tuo pudore, la tua ironia, il tuo carattere di merda, la tua presenza, la tua assenza.
Sei libero di andare, sei libero di lasciarmi libera. Sei libero di andare via dai miei anni di analisi, dalle mie pastiglie, dalle mie insonnie, dalle mie paure, dalle mie malattie, dalle mie conquiste, dai miei fallimenti, dalle mie gioie, dalle mie foglie, dai miei colori, dalle mie lacrime invisibili, dai miei urli abortiti, dalla mia imperdonabile incapacità di dichiararti morto ogni volta che lo dicevo a qualcuno. Chi mi conosce meglio di chiunque altro mi ha fatto notare, qualche giorno fa, come non abbia mai parlato di te con il trasporto e la presenza a se stessi con i quali bisognerebbe parlare di un genitore morto giovane. Beh, è così. Sembrava sempre che raccontassi del papà di un vicino di casa, dello zio del fruttivendolo, del tabaccaio in fondo alla via.
Poi però il destino ti porta all'obitorio e ti mette davanti a quello che non hai mai voluto guardare davvero e, quasi dieci anni dopo, esplodi. Milioni di immagini ti scorrono davanti, proprio come quando si muore, o almeno così dicono. E io, nello stesso modo, ho ricominciato a vivere. E tutto mi sembra bello, tutto mi sembra degno di essere vissuto, tutto mi sembra superabile, tutto mi sembra un'opportunità. La mia voce comincia ad avere un peso, il mio tempo a valere tanto quanto quello degli altri, le mie notti a fare meno paura.
Oggi, 15 luglio 2014, dichiaro ufficialmente chiusa la battaglia.
Tu puoi finalmente andare.
Io posso finalmente restare.

P.S. E il modo migliore per salutarti è con una colonna sonora che ti piaceva tanto, ma ho scelto questa versione, più divertente dell'originale di "Un tranquillo weekend di paura", che diciamocelo Pa, gran film, ma forse ero un po' piccola!

sabato 12 luglio 2014

Lampadiyne

E' una vita che non scrivo un post sul fai da te, e devo dire che ne sentivo la mancanza. Non so perché sia andata così, in verità è un periodo molto produttivo, di sperimentazioni, serate trascorse sul tappeto con la lampada gialla accesa, tra colla, forbici, pinzatrice e, ultimamente, lampadine. Anzi, lampadiyne, con la y che trasforma in diy (do it yourself) un oggetto di uso comune. E' buffo come l'idea di riciclare le lampadine sia venuta a me che ho la casa illuminata quasi esclusivamente a LED, ma forse è un segno distintivo del mio carattere, quello di provare cose che posso trovare solo a fatica. E così vai di messaggi, richieste agli amici, "tenete tutto!", "conservate i contenitori delle uova e le gabbiette dello spumante", "portatemi le vostre lampadine".
In pochi giorni ne sono nate due, quelle che vedete in foto. Un cactus e una mongolfiera che ancora sono prototipi, imprecisi e smandrappati come me, ma il solo pensarli mi ha fatto stare bene. Sotto i pennellini dello smalto in questo momento c'è una lampadina piccola, che come consigliato da MissFletcher potrebbe diventare un'ape, del resto la ex proprietaria sta studiando da apicoltrice e magari riuscirò a farle un bel regalo!
Alla fine non so come andrà, magari sarà una magia breve che si interromperà all'improvviso proprio come è nata. Per ora compro smalti (per le unghie!) e conservo tutto quello che istintivamente butterei nella spazzatura, poi si vedrà.
Non ho tutorial disponibili, anche perché non ho neppure una linea certa da seguire, posso dire però che sto usando:
- smalto per le unghie colorato
- pennellini di diverse dimensioni (che però si seccano usandoli con lo smalto, perciò boh, dovrò trovare un'altra soluzione)
- contenitori per uova di cartone
- gabbiette metalliche dei tappi di spumante
- feltro
- plastica
- colla a caldo
- forbici
- pinzatrice
Ma credo che gli strumenti possano essere i più vari, a seconda delle esigenze e delle idee. Adesso, per esempio, sto pensando a come costruire le ali per la mia ape... :-)

I'm from Heligoland

Ieri sera sono andata al concerto dei Massive Attack, e ho capito e scoperto un po' di cose.
Innanzi tutto ho capito che sono sei mesi che vivo ad Heligoland, che non sono gli isolotti tedeschi ma sono le canzoni dell'album dei Massive Attack. In particolare le mie giornate ovattate e nello stesso tempo super intense dondolano tra questi ambienti e questi senza soluzione di continuità. Poi ho capito che possono trascorrere anche cinque anni ma se una musica ti piace e tocca le corde giuste lo farà per sempre, come lo ha fatto in gita scolastica a Venezia, come lo ha fatto alla Sciorba nelle serate d'inverno.
Ho capito che decidere di fare una cosa all'ultimo, come comprare i biglietti del concerto e dire "Sì ok ciao ci vado" non è la morte di nessuno, anzi. Ho capito che sono troppo bassa per stare al centro e che per tutto il tempo rischio di non vedere nulla e respirare marijuana passiva esattamente come il dodicenne accanto a me, che a ogni pezzo piagnucolava tossendo "E' finito? Andiamo?". Come biasimarlo, se ne pentirà solo tra una decina d'anni. Ieri ho anche capito che bere in questa fase è meglio evitarlo, che il golfino da nonna non mi serviva, che sono ancora capace di ballare in solitaria pensando solo ai fatti miei, che Teardrop è davvero bellissima. Ho capito che le navi che passano sullo sfondo, durante un concerto come quello dei Massive Attack, rendono tutto ancora più surreale, anche se può sembrare impossibile. E poi ho scoperto la cosa più importante: riesco a stare in mezzo alla folla. E sono felice.
Quindi bene, brava, bello, non poteva andare meglio, hanno persino chiuso con questa, la mia preferita (per variare un po' sul tema, invece di piazzare qui l'originale, ho messo una cover che mi piace tanto tanto).
"You're the book that I have opened, and now I've got to know much more"

lunedì 7 luglio 2014

Bosco Mondo!

Io non lo so mica se riesco a scrivere un post su questo libro, una recensione dico.
Lo ammetto, ero partita prevenuta, un po' perché di questa Mastrocola ne avevo sentito parlare parecchio, un po' perché non tutti i pareri erano positivi, nonostante ci fossero di mezzo anche dei premi (o forse proprio per quello).
Comunque, a me Una barca nel bosco è piaciuto, e pure tanto.
E' uno spaccato della scuola fancazzista, dei ragazzi che non ne hanno voglia, della società tutta marche e giudizi, delle difficoltà delle famiglie meno ricche...ok, è scontato, ma basta avere pazienza. La prima parte della lettura scorre veloce e a mio avviso è pure piacevole, porta con sé quel divertimento che divertimento non è, quell'ironia tragica che conosco così bene e che è subito capace di mettermi a mio agio.
Insomma, è nella seconda metà che tutto cambia. O meglio, che tutto resta uguale ma arrivano le piante.
E per chi ama le sorprese attenzione: SPOILER! Si fermi qui.
Altrimenti è così, arrivano le piante nel vero senso della parola. Il protagonista, in perenne lotta con la sua inadeguatezza, comincia a comprare alberi. Il primo pretesto per l'acquisto di un pioppo glielo dà una ragazza, che in verità manco se lo merita quel pioppo. Querce, piante tropicali e felci arriveranno poi, da sé. E dove le metterà tutte queste piante vi chiederete voi? Semplice, in casa!
Le persone muoiono e gli spazi restano, questo lo sappiamo tutti bene. Non c'è modo migliore per riempire gli spazi vuoti che con delle piante, che non abiteranno soltanto la vostra casa, ma anche il vostro cuore. Saranno un pensiero felice, una preoccupazione, arriverete persino a parlarci e questo il vicino-vicino lo sa bene, non molto tempo fa l'ho beccato guardarmi perplesso mentre salutavo l'edera con un "ciao bellezza, come stai oggi?".
E quindi un libro in cui il protagonista costruisce un "trasportino" di corde per portare a spasso il suo pioppo o una carrucola per cullarlo in casa non può che piacermi. E' facile per me immedesimarmi nei difficili viaggi in bus carichi di foglie e rami, ma anche nel lavoro al bar perché tutto il resto è andato male, nel papà che muore e non gli hai mai detto nulla di quello che volevi dirgli, nella certezza che è giusto essere come sei tu ma che qualcosa per piacere agli altri si dovrà pur fare, che qualcosa per scollarsi da quel termosifone è necessario trovarlo. Sempre.

"Non importa, dominus. Non si preoccupi. Nulla importa davvero. A noi son state date piccole cose a cui badare, qualche foglia che ingialla, un rametto spezzato. In queste minuzie ci siamo beatamente perduti. E ci siamo resi, così, imprendibili.
Eh, sì, non ci prenderete mai! Abbiamo certi rivoletti e sentierini, noi, che voi neanche immaginate, cari signori del mondo. Non ci prenderete nella vostra rete, maramao.
Ci resta soltanto, caro dominus, un sottile dolore, come una puntura che ci prende, a volte, all'imbocco dello stomaco. Questo sì, un punctum. Qualcosa che non va né su né giù. Come un cucchiaio di minestrone e noi lì come cretini, senza un bicchiere d'acqua che riesca a mandarlo giù."

domenica 6 luglio 2014

Il diario verde

Ho perso la carta prepagata e così, prima di andare dai carabinieri per la denuncia ho messo sottosopra la mia vecchia stanza a casa di mamma...niente da fare. E' sparita.
In compenso però, dopo due giorni di sole, mare, amici, uncinetto, frutta e persino una vittoria al Palio del Gallinaccio 2014, mettendo in ordine (o in disordine) scatole, cassetti e scaffali ho trovato il mio diario.
Il blog di quando ero piccola insomma. Ed è il più recente di quelli che ho scritto. Aprirlo e rileggerlo tutto è stato così doloroso, commovente e a tratti pure divertente che ho deciso di fermarmi e non cercare anche gli altri miei scritti.
Terrò il piccolo libro rosa per la prossima volta, stasera mi basterà andare a dormire con in mente qualche brano del diario verde.
Ricordo benissimo dove andavo a comprare le agende per scrivere i miei pensieri, in Piazzetta del Ferro, dove ancora oggi credo ci sia la bottega che rilega e confeziona oggetti con la carta. Costavano cari e la scelta era difficilissima. Non volevo righe né quadretti, preferivo gli spazi bianchi da gestire sul momento, anche incollando frasi, biglietti o foglie secche, come sempre.
Rileggendo indietro nel tempo (il primo "post" è del 2002) ho trovato la solita me in difficoltà, spaventata dagli abbandoni, piena di forza e tenacia nelle relazioni, stanca di studiare e dare esami per poi non andare in vacanza, non concedersi due giorni di svago, sfiancata dal carattere impossibile di papà e dalle fatiche di mamma. Ho trovato una Elena in fuga, che non faceva altro che scrivere quanto desiderasse scappare, ora però, tutto questo bisogno, non lo ricordo per nulla.
Credo di aver rimosso moltissime cose, nel mio cervello si confondono le date e si accavallano gli avvenimenti, tra analisi, macchie nei polmoni di tre persone diverse, ospedali, prelievi, funerali, candele, treni, gatti e auto in fiamme non saprei ricostruire a memoria tutto quello che ho visto in quegli anni. Ma l'ho scritto. E oggi l'ho ritrovato.
Mi sono seduta sul pavimento, schiena contro il muro, e ho letto tutto d'un fiato i miei pensieri di dodici anni fa.
Stasera ne riporto un pezzo, perché mi ha lasciata sorpresa, forse pure un po' ammirata, di sicuro mi ha inumidito gli occhi.

05-03-2003
La mia vita sta cambiando un'altra volta. Col trapano di mio padre e Wild Horses come sottofondo mi accorgo di questo. Non posso fermarla forse perché non voglio o perché non si può bloccare il vento sugli anni.
Gli anni giovani sono i più sottili, dondolano più degli altri, fanno venire la nausea al cuore e pensare che io soffro persino l'automobile. La mia vita sta cambiando perché il vento è sempre più forte e non riesco più a rimettere gli anni al loro posto, rimangono scompigliati. Ciò che mi resta è spezzare quelli che appesantiscono la pianta più grande che esista, la vita più grande che esista.
La mia vita è la più grande che esista, certe sue parti sono marce e da tagliare via certe sono solo da potare ma devo lasciare che le rondini vi riposino, creino altra vita alla mia vita. Sono vuota, infetta nella pancia di una malattia vegetale. Sono bella di poesia e di cuore e di miele e di sangue.
Sono muta di parole di accidenti di malumori.
Sono calda di cielo di mare e di sale.
Sono vitale di speranze e di rese.

Quello che mi viene da pensare è che già scrivevo di piante, di mondo vegetale, di natura che vive e cresce. Nel giorno in cui ho terminato Una barca nel bosco di Paola Mastrocola sentendomi parte totale del delirio verde del protagonista e della sua inadeguatezza verso il resto del mondo, ho trovato parole che a ventun anni non riuscivo a trattenere. Avevo ventuno anni accidenti, e doveva ancora iniziare l'inferno.
Ho grandi ragioni, ma enormi davvero, per essere indulgente con me stessa, per volere più bene a quel mio primo amore così affaticato, per guardare indietro e capire da dove trascino il senso di incapacità che non riesco mai ad appoggiare. Quanto sentimento ho sottovalutato! Quante difficoltà ho superato! E meno male che ho scritto tutto, come al solito, meno male che ho le prove per ricordare al mio peggior giudice che sono stata proprio brava.

giovedì 3 luglio 2014

Le luci nelle case degli altri

Quando ho pubblicato questo post non avevo idea dell'esistenza del libro di cui scriverò oggi. Non avevo mai letto nulla di Chiara Gamberale e ho iniziato un po' per caso e un po' per curiosità. Qui tra la pila di libri da leggere ne ho un altro suo e chissà se mi piacerà come questo.
In verità non credo sia un romanzo particolarmente bello, ma io ne ho tirato fuori un sacco di spunti interessanti. Mi sono lasciata trascinare dalle parole e ambientata subito nel condominio di Via Grotta Perfetta, dove in ogni abitante ho trovato qualche amico, un parente, il capo...insomma un microcosmo composto da persone che vivono nella vita di tutti noi, ogni giorno.
Non è una storia triste, nonostante i motivi di dolore ci siano eccome e siano pure i più classici: dal lutto all'abbandono, dalla solitudine al tradimento, dalla paura alla frustrazione. Le luci nelle case degli altri è una storia particolare in cui sono i ragionamenti familiari che rapiscono chi legge, certi sensi di inadeguatezza così riconoscibili e riconosciuti, certe gioie inaspettate e irraccontabili, certi segreti tutto sommato comuni a molte, troppe persone.
"Dunque conoscere una persona significa permetterle di darci o toglierci qualcosa. Significa farla entrare nella nostra esistenza: fargliela sporcare, il giorno che quella persona avrà le scarpe piene di fango. Fargliela illuminare, se a quella persona verrà in mente di portare con sé una lampadina. Fargliela modificare, insomma. Mentre noi modifichiamo la sua. Senza che magari nessuno - né noi né quella persona, - mentre succede, se ne renda conto"
Ed è vero, è così che funziona, o che per lo meno secondo me dovrebbe funzionare. Forse che i miei fallimenti in amore stiano nella mia passione per le galosce e per il fango? Forse è perché mi sono messa a dipingere lampadine? Io sono fatta così, ormai è chiaro a me e a molte delle persone che mi stanno vicino: mi lascio andare, mi lascio conoscere, senza fidarmi mai questo è vero, ma prendendo e togliendo, modificando e facendomi cambiare. E penso sia profondamente giusto così.
Perché "il resto è adesso".
Io fossi in voi lo leggerei, perché regala anche delle sorprese, perché racconta l'incanto di chi s'innamora per la prima volta, perché affronta con tenerezza le piccolezze di un'anziana donna sola e perché parla di omosessualità finalmente senza buonismo.
Io fossi in voi lo leggerei perché, come Palomo, questo libro non biasima nessuno.

martedì 1 luglio 2014

I portatori di conforto

Nel mio quartiere ci sono persone che fanno un mestiere strano, un lavoro che non avevo mai sentito e che sinceramente non pensavo neppure esistesse. Sono i portatori di conforto. Questi uomini (perché per lo più di maschi si tratta) hanno il compito di aiutare chi si sente in difficoltà. Sì, avete capito bene, non chi è in difficoltà, ma chi si sente in difficoltà. Che differenza fa direte voi? Beh, una differenza enorme. Chi è davvero in pericolo, malato, ferito può chiamare il medico, nei casi più estremi anche l'ambulanza, ma chi "ha solo" paura, si sente perso, si ritrova solo in una casa troppo buia e vuota per arrivare a sera, può ricevere un conforto da questi portatori. Ma chi decide quando è il momento di chiamarli? Come si fa a contattarli?
Non c'è una sede, non esiste un numero di telefono, eppure loro sono sempre disponibili e non conosco nessuno che abbia avuto bisogno e non sia riuscito a rintracciarli. Semplicemente perché i portatori di conforto camminano, notte e giorno, con gli occhi e le orecchie aperte, per assicurarsi che tutti stiano bene. La loro attività, come facilmente capirete, è prevalentemente notturna: quando i vicini dormono, quando nel vicolo si sente a malapena passare uno spazzino con la sua scopa dal rumore familiare, può capitare che i cattivi pensieri prendano il sopravvento. Un battito troppo accelerato, una vita che cambia all'improvviso, una vita che non cambia affatto, un conto in banca sempre più fragile, un lavoro sempre più precario, un parente ammalato, un amore lontano, un amore che non c'è, un affetto che non tornerà, un dolore che sembrava passato...di quante cose possono prendersi cura i portatori di conforto. Per essere aiutati però non basta aver paura, rintanarsi sotto alle lenzuola, piangere in silenzio e sperare che arrivi presto l'alba. Per ricevere una mano occorre farsi vedere, accendere una luce che filtri oltre le persiane, camminare un poco sul parquet tiepido, chiudere gli occhi e pensare fortissimo a loro, a quel passo lento e rassicurante, quei vestiti semplici e simili uno all'altro, quelle voci calme e quegli sguardi solidi di chi sa cosa fare, di chi conosce il rimedio al male di vivere. E allora sarà sufficiente un incontro per creare un legame, i portatori di conforto sapranno per sempre che oltre quella porta potrebbe esserci un cuore da ascoltare, che dietro a quella finestra fiorita una volta ci sono stati una paura da sconfiggere, un groviglio di pensieri da dipanare, una notte da salvare.