lunedì 27 ottobre 2014

Io scrivo

Il Festival è iniziato, le vie brulicano dei soliti asterischi appesi al collo, le conferenze, gli eventi, gli spettacoli si rincorrono per tutto il giorno, la sera si organizzano aperitivi, cene, bevute al Conte. Io, nel frattempo, scrivo.
Ho turni perfetti quest'anno, che si incastrano benissimo con gli orari di ufficio, con gli impegni extra lavorativi, con il pilates, con la serata volontaria all'Altrove, persino con le pulizie d'inverno.
Il laboratorio fila che è una meraviglia, sto al caldo, stampo quattro o cinque foglie colorate all'ora, parlo, riparlo e straparlo con bambini di sette anni quanto con ragazzi di diciotto, mi diverto come sempre, o forse persino più di sempre.
Non credo però che dipenda dal Festival, ma penso piuttosto che il mood semi zen che sto tentando di seguire da Gennaio stia continuando a dare i suoi frutti. E così organizzo serate a degustare Champagne con mamma e i vicini, vado a vedere Nespoli e il suo mondo spaziale, mi intrufolo nella Notte dei libri viventi e domani sera mi godo il mio amico Edu che canta felice in mezzo al suo pubblico in delirio.
Mentre oggi scoprivo, con una meraviglia rara, quanto l'istruzione italiana e le sue regole siano al limite della decenza (non che non lo sapessi eh, ma non credevo fossimo a questi punti, davvero no), pensavo che ok, siamo folli, sono folli, ma io me ne chiamo fuori. "Pugno!" Come si diceva da piccoli. Voi prendete per il culo il mondo, io scendo e vado a scrivere. Prima però mi compro il libro più bello che esista al bookshop del Festival e vado a sfogliarmelo seduta sui gradini della piazza. Poi, al prossimo giro di follia, mi piglierò pure questo, perché un'autrice così merita di essere seguita per sempre.
Quindi reduce da tonsillite e febbriciattola, ancora portatrice più o meno sana di gola in fiamme e mal di testa, me ne sto accoccolata sotto alle coperte e scrivo, con la tisana balsamica che mi fuma accanto e niente musica, per una volta. Prima di mettermi al lavoro qui davanti al pc, però, ho preparato Marianna al grande passo: Marianna è la talea che vedete in foto, un pezzo di pianta pelosa che mi ha regalato Anna, la mia collega. Penso sia della famiglia delle miserie, quelle striscianti tendenti al viola che si vedono spesso in giardini pubblici, poco soleggiati, a volte anche un tantino vittime dell'incuria. Marianna, invece, è super coccolata, lo dimostra il fatto che le ho pure dato un nome. Domattina entrerà in vaso, un contenitore piccolo in verità, provvisorio sicuramente, e andrà a sostituire una delle due succulente appese che ci ha lasciati in questi giorni. In completo silenzio è marcita, probabilmente mentre ero via, sicuramente per la troppa acqua, lasciando la gemella sola e un vaso tristemente vuoto. E' arrivato quindi il momento per dare spazio (e terra) a Marianna e vedere come se la caverà lassù.
Io sono fiduciosa, si fa sempre in tempo a cambiare, trovare un'altra posizione, cercare un luogo migliore e una modalità più rilassante. Parola mia.

sabato 18 ottobre 2014

Vacanze romane: cose che non sapevo di me.

Quando si viaggia da soli si impara sempre qualcosa di sé.
Questa è la mia ultima sera a Roma, nella stanza accanto hanno appena stappato una bottiglia di spumante e un paio di piedi nudi hanno attraversato di corsa il corridoio per prendere due bicchieri in cucina. Prosit.
Sono rientrata poco fa dalla cena, ho mangiato in un'osteria qui vicino, ho fatto due passi nel viale di magnolie, ho pensato a me e alla settimana che verrà, fatta di curriculum da inviare, analisi da completare, visite mediche da ricordare, Festival della Scienza da iniziare.
Domani ho il treno diretto che mi riporterà a Genova, che mi è mancata un sacco anche se di starmene lontano per un po', pure poco, ne avevo davvero tanto bisogno.
Il convegno che ho seguito è stato molto interessante, il primo giorno cose già viste e sentite, oggi novità e tecniche utili per concludere degnamente questi due anni di assegno ormai in scadenza.
Quindi, dicevamo, viaggiando da soli si scoprono un sacco di aspetti personali che non si conoscevano. Ecco i miei:
1) Non mi piace mangiare da sola. Racconto spesso che ho iniziato tardi a farlo, ero già all'università la prima volta che ho pranzato con un'insalata greca al Botteghino delle Vigne. Piano piano mi sono abituata, ma è inutile: non mi piace. In questi giorni ho pranzato con un panino imbottito di frittata e verdure grigliate sul treno, all'altezza di Grosseto, in piedi nel corridoio. A cena ho preferito un aperitivo mentre ieri, a pranzo, un piatto di bucatini cacio e pepe non me lo ha tolto nessuno. A cena ho onorato le tradizioni e ho mangiato il baccalà fritto con le puntarelle e un quarto di vino bianco, come se con me ci fosse stata Anna la mia fedele compagna di viaggi di lavoro. Oggi, a convegno finito, mi sono seduta nel ristorantino di pesce che avevo adocchiato ieri: tartare di spigola e bicchiere di vino, tutto buonissimo ma 2,50 euro per un caffè e addirittura 3,00 euro per mezzo litro d'acqua del rubinetto...proprio no. E questa sera, dopo un pomeriggio infinito in giro per mostre, ho ceduto al menù a prezzo fisso con lasagna e bruschette, concedendomi ben due bicchieri di albergaccio perché è l'ultimo giorno e sono un poco triste. Morale della favola: non mi piace mangiare da sola, persino a colazione preferisco stare al bar (in religioso silenzio ma pur sempre tra la gente), però se sono costretta a farlo lo faccio, e pure bene.
2) Visitare mostre per me è come camminare: da sola è molto meglio. Non è vero, ho detto una bugia: visitare le mostre e camminare sono due attività che da sola faccio volentieri e benissimo, ma se posso condividere una cosa così bella con chi ama farlo tanto quanto me...beh allora sono felice davvero. La prerogativa essenziale è, tanto per cambiare, il silenzio. No commenti su quel quadro o quello scatto, no pause per foto, animaletti, alberi strani, didascalie, audioguide inceppate, falchi pellegrini. Le considerazioni sulla passeggiata e sull'esposizione solo a cose fatte, grazie.
3) Se non fossi una conservation scientist (ahahahaha, diagnosta per il restauro, va) sarei biologa, anzi botanica, anzi lichenologa. Quando partecipo a convegni simili a quello concluso oggi ho improvvise certezze e chiare visioni del se e del ma. Amo le piante, amo i muschi, le felci, le alghe, i fiori piccoli e sconosciuti. Amo le foglie, gli alberi, i prati. Amo tutto quello che è natura, bellezza, spontaneità. Però amo anche l'arte, i colori, la capacità di pochi (pochissimi) di dirmi esattamente come si sta con un peso nel cuore, con un bimbo in arrivo, con un lutto nel cervello, usando semplicemente una matita, un pigmento, una forma, un materiale.
4) Il secondo punto ritorna in questo. Perché in tre giorni ho visto quattro mostre, perché domani forse ne visiterò una quinta, e questo è stato possibile unicamente perché ero sola e perché negli artisti che ho deciso di andare a vedere si nascondono tutti gli aspetti di cui ho scritto poco fa. Il punto di vista spontaneo e capovolto di Escher, la bellezza immortalata da Cartier Bresson, la natura e i colori di Fontana (detentore ufficiale del mio cuore per un mese almeno), le difficoltà e le gioie nascoste tra gli scatti di Erwitt e Gardin.
5) Ho il senso dell'orientamento di un calzino. Nullo. Mi sono persa ogni giorno, verso ogni meta, ad ogni ora. Non che non lo sapessi, per carità, ma non credevo di essere così incapace di leggere una cartina, di riconoscere una via, di raggiungere un posto alla prima. Per fortuna che oggi pomeriggio, sul tram, il pompiere Mario mi ha guardato le scarpe, mi ha chiesto se vado in montagna e mi ha accompagnata fino all'ingresso dell'Auditorium, dove mi hanno scontato il biglietto per l'impegno. Giuro. (Nu se semo presentati, io sò Mario comunque. Se vedemo 'n giro)
6) Non potrei mai vivere in una città grande. Mi riallaccio automaticamente al punto scorso ma è così. Mi perdo, non mi serve tutto questo spazio, non lo so gestire e mi mette l'ansia. La metro di Roma? Uh, per carità. Meglio i quattro metri quadri di quella di Genova, che a fare a piedi arrivi prima. Ha ragione il vicino-vicino, mi manca la gallina nella gabbia e poi non avrò nulla da invidiare a Renato Pozzetto, ragazzo di campagna.
7) I book-shop sono il male, per il mio portafoglio di sicuro. Ho risparmiato in bus, metro e tram, ma ho spesso una fortuna in cataloghi, cartoline, stronzate varie ed eventuali di un'inutilità imbarazzante. Unico altro regalo: due taxi la sera per non attraversare Roma al buio con la certezza matematica di perdermi e farmi rubare tutto, cataloghi e cartoline compresi.
8) Ballando con le stelle è il male più dei book shop. Lo sto "guardando" ora mentre scrivo, un trauma per chi ha vissuto anni senza TV. Anzi, mentre la Carlucci dice "Chissà le gambe come sono diventate dure nel frattempo" medito di spegnere e di mettermi a leggere questo (uno degli innumerevoli acquisti di cui sopra, ma Fontana a Palazzo Incontro, con la libreria Fandango al piano terra, non ha aiutato a non comprarlo).
Ho scoperto altre mille cose, ma si fa tardi e si fa lunga, le terrò per me. S'è fatta na certa, come dicono qui.
Daje.




giovedì 16 ottobre 2014

Postcard from Italy

"Siete davvero sicuri che un pavimento non possa essere anche un soffitto?" Diceva Escher. E lo dico anche io.
Una delle ragioni per cui patisco l'immobilità, il non andare mai in viaggio, il rimanere sempre ancorata nello stesso posto, deriva proprio dal bisogno di verificare che il pavimento possa essere anche un soffitto. Cambiare il punto di vista, guardare il mondo da un'altra prospettiva, mettersi a testa in giù, sotto sopra, per poi tornare a casa. In questi giorni a Roma, ufficialmente per un convegno che promette grandi cose, voglio provare a muovermi tra mostre, negozi, strade, con l'unico obiettivo di vedere quello che c'è. Oggi in treno ho viaggiato benissimo, la stanza dove alloggio è piccola, semplice e silenziosa e per arrivare in centro mi spetta una passeggiata tranquilla di una quarantina di minuti. Che camminare mi piaccia è cosa nota, così come è cosa nota che il mondo dell'arte si spartisca con quello della natura buona parte del mio cuore. Quindi, appena arrivata, giusto il tempo di lasciare la valigia e controllare la cartina, mi sono fiondata a passo spedito lungo Via Cavour, ho attraversato la zona dei Fori (dove domani e sabato trascorrerò buona parte del mio tempo) e sono andata al Chiostro di Bramante a vedere la mostra di Escher. L'anno scorso nello stesso posto avevo visto Bruegel ed ero rimasta incantata dal luogo prima ancora che dall'esposizione. Questa volta la sensazione è stata la stessa: così stritolato dal centro storico si nasconde uno spazio ampio, elegante, misterioso, dal quale guardare il cielo con un punto di vista completamente diverso, proprio come piace a me.
La mostra è bellissima, ricca di opere, interattiva, con audioguide gratuite e un percorso appositamente pensato per i più piccoli. Non so dire quanto io sia rimasta là dentro, davanti alle geometrie impossibili, alle sequenze infinite di pesci, uccelli, scale e triangoli, sicuramente più di un'ora. Quando sono uscita stava venendo buio e sono finita di nuovo e magicamente in mezzo al momento in cui si accendono i lampioni. Ho fatto un giro in Piazza Navona dove una ragazza suonava l'arpa, un signore anziano cantava Caruso, il solito indiano arancione fluttuava a un metro da terra, un uomo teneva un mazzo di palloncini attaccati alla lunghissima lenza di una canna da pesca e un ragazzo in cravatta lanciava clave infuocate verso il cielo. Mi sono seduta davanti a un piccolo locale con l'ingresso ricoperto di lucine accese e ho ordinato uno Chardonnay Bio del Lazio, ho bevuto con calma, spiluccato dal piattino di bruschette, olive e insalata e poi, sulla via del ritorno, ho preso un gelato.
Confesso di essermi regalata pure un taxi, la strada era lunga e devo farla almeno ancora una volta se non voglio ritrovarmi al buio, col telefono scarico, dall'altra parte di Roma.
Quindi ora, dal letto della mia piccola camera, con l'abat-jour accesa e le salamandre attorcigliate di Escher che si rincorrono nella mia testa, scrivo e guardo la TV, quella TV che non possiedo da quasi cinque anni e che stasera, ironia della sorte, passa un film demenziale su una ragazza sempre invitata ai matrimoni degli altri e mai protagonista del suo. Punti di vista.
Dalla finestra davanti a me vedo altre finestre illuminate, poco fa a sinistra mangiavano attorno a un bellissimo tavolo, al piano di sopra solo gerani e a destra scale, scale e ancora scale come nelle stampe di Escher.
Chissà se domani riuscirò a vedere un'altra mostra o, stancata dal convegno, verrò solo a mangiare una montagna di cacio e pepe nella piccola osteria qua sotto. Di sicuro ci sono almeno altre quattro esposizioni che meriterebbero una visita, ma come ho scritto all'inizio del post sono "qui con l'unico obiettivo di vedere quello che c'è".

domenica 12 ottobre 2014

Ci sono cose che voi umani...

Avviso: non è un post sull'alluvione.
E la foto allora? La foto c'è perché sì, siamo ancora finalmente in allerta meteo e ieri sono stata nei luoghi colpiti dove ho scattato un'unica foto del disastro, quella quassù appunto.
Non ho intenzione però di fare dietrologie, cercare responsabilità, analizzare le cose accadute e quelle non accadute, perché qui non lo faccio mai, per scelta. Sono stati rari i post con un po' di cronaca e/o polemica, ne ricordo uno sull'otto marzo, uno sul crollo della torre dei piloti, e pochi altri. Sicuramente ci sono colpe, inadempienze, anche criminali se vogliamo chiamarle tali, visto che c'è una vittima, ci sono milioni di danni e soprattutto c'è una ricorrenza di questi fenomeni sempre più preoccupante e certamente non casuale.
Se proprio devo dire la mia opinione mi trovo d'accordo con chi parla di territorio violentato dalla cementificazione scellerata, di opere di bonifica, idraulica, edilizia che non sono state completate e spesso nemmeno iniziate, di natura che si riprende gli spazi che le abbiamo tolto senza porci minimamente il problema. Patisco invece moltissimo chi si improvvisa, nell'ordine, ingegnere, progettista, architetto, meteorologo, giudice, politico, tecnico e potrei continuare all'infinito. Parole, parole, parole vane che si sommano a un mare di opportunismo, uno sciacallaggio non certo migliore di quello vero e proprio, con mezzi politicanti che da un dramma cercano di strappare voti, visibilità e futuro.
Ma questo non sarà un post sull'alluvione.
Sarà un post di somme tirate, e non tirate, di riflessioni da domenica casalinga, con i calzettoni di lana, la camicia a scacchi e tantissimo lavoro da portare a termine. Il curriculum europeo è quasi pronto, tempo di recuperare i certificati richiesti e di farlo leggere a qualcuno di competente e poi via, si spedisce e chissà come andrà. Il bando è sempre fermo e nessuno mi risponde alle e-mail, immagino già una prossima settimana da incubo con la scadenza imminente e il silenzio totale delle istituzioni. Il viaggio che arriva tra poco mi emoziona, perché oltre a vedere meraviglie e a girovagare per Roma, credo riuscirò finalmente a finire il percorso di giusta distanza che ho iniziato da un po'. Che per carità, è una roba che faccio da sempre, a cadenza regolare come il cambio degli armadi, ma adesso ho deciso che non sarà più un problema: evidentemente ogni tot devo aggiustare il tiro perché lo scenario cambia e non tutti i mirini che ho sono adatti.
Poi c'è la questione torre o lumachina che dir si voglia, ma a risolverla ci provo già ogni giovedì, il resto della settimana cerco solo di non fare cazzate. E così in questi giorni di terrore per la mia città e pure per me che non amo moltissimo svegliarmi nel cuore della notte con la sensazione di essere da sola in mezzo al nulla, io metto insieme i pezzi. Con una fatica boia, in verità, e non poco scoramento. Certamente che cambiare prospettiva e fare le cose anche con attenzione per me stessa è molto utile, perciò a spalare il fango vado nel posto che rappresenta più di ogni altro le gioie della mia infanzia: il Museo di Storia Naturale, ma con un occhio fisso alla situazione a casa di mamma. E poi ok la domenica a lavorare, ma con il permesso accordato di prendermi una pausa ogni tanto per pensare a un compleanno speciale che sarebbe oggi ma che ormai non si festeggia più. E lo smalto rosso alle unghie, il colore rame ai capelli, la tisana di malga per scaldare la pancia sottosopra, il mantra positivo nel cervello che mi ricorda che in qualche modo ne uscirò. Una soluzione la troverò, una possibilità per il mio futuro da qualche parte ci sarà.
Per me e per la mia città distrutta, ancora una volta.

mercoledì 8 ottobre 2014

Vicenza l'elegante

Sono stata a Vicenza nel weekend.
Avevo un convegno di lavoro e sono rimasta tre giorni in questa città.
Vicenza è piccolina, per lo meno lo è il centro storico, si gira in poco tempo ed è bella. Ci sono motivi precisi per cui è bella:
è pulita
è piena di chiese
è ricchissima di spazi verdi (quanti alberi tutti insieme! Che meraviglia!)
è un concentrato di negozi di alta qualità
è portatrice sana di locali dove bere e mangiare a prezzi più che ragionevoli (o almeno per quanto riguarda i posti dove sono stata io)
è una città giovane, nel senso che tanti ragazzi tutti insieme io non credo di averli mai visti
è elegante
E qui casca l'asino. Perché, direte voi, l'eleganza non è un pregio? Certo che sì. Ma a volte mi è parso che il tentativo di essere eleganti a tutti i costi rendesse le cose e le persone un poco finte. Intendiamoci, lungi da me fare di tutta l'erba un fascio, ho visto donne e uomini eleganti con sobrietà, vestiti casual ma estremamente piacevoli, con i capelli freschi di parrucchiere e assolutamente raffinati. Poi però ho visto anche tantissime persone, soprattutto la sera, agghindate in maniera esagerata, molto truccate, sempre con i tacchi, le pochette, i telefonini all'ultima moda e i bambini vestiti come principi. Tutti. Non ho visto nemmeno una tuta a Vicenza. Anzi, l'ultimo giorno, la mattina, mentre camminavo tra gli stand del mercatino dell'artigianato organizzato in piazza, una signora si è chinata su un passeggino e ha esclamato alla bimba semiaddormentata: "Mi hanno detto che oggi sei proprio la bambina più elegante di tutta Vicenza!".
Mi ha fatto impressione. Perché non ci sono abituata probabilmente, vivendo nei vicoli è più facile che alla mattina mi capiti di incontrare Giulia, la bimba cinese del ristorante sotto casa, o qualche spazzino che finisce il turno, o il giornalaio che apre l'edicola, o la mitica Mercedes che si trascina sul suo bel sedile di pietra. Di bimbe elegantissime in carrozzina nemmeno l'ombra.
Questi sono i pensieri che ho fatto lì per lì.
Poi però ho riflettuto.
E mi è venuta in mente la terrazza bellissima dove abbiamo preso un aperitivo (grazie Eli del consiglio!) e da dove ho visto volare via uno dei mille palloncini di Vicenza, intercettato con malcelata emozione il giorno dopo sui cieli sopra all'albergo. Mi è venuto in mente il ginkgo biloba che ho incontrato venerdì, maestoso e ancora verde, mi è venuto in mente il negozio che volevo tanto andare a visitare e dal quale sono uscita con questa, mi è venuto in mente il servizio bus notturno che a Genova te lo scordi, mi sono venuti in mente il vino buono ovunque e il ristorante meraviglioso dove abbiamo cenato entrambe le sere. E allora ho capito che Vicenza in realtà è elegante in queste cose. E' elegante perché sa coccolarti. Sa regalarti angoli bellissimi come quelli attorno al fiume, sa parlare a bassa voce, sa stupirti con botteghe antichissime e ancora molto frequentate, sa valorizzare quello che ha anche se è piccola.
In questo Vicenza è elegante. Poco importano i tacchi 14 indossati con goffaggine, i mocassini con il pantalone risvoltato, le auto di lusso sotto il portico, gli occhiali da sole anche di notte.
Ho pensato che se fossi stata vicentina e fossi venuta tre giorni a Genova l'avrei giudicata sporca, piena di gente trasandata (soprattutto la sera!), di ragazzi chiassosi, di topi, di muri scrostati, di pozze di piscio, di ubriachi che urlano nel cuore della notte. Mentre la mia città non è così, è anche questo certo, ma non solo. Come Genova è malinconia, Vicenza è eleganza. Come Genova è malinconia anche in piena movida, Vicenza è eleganza anche da vuota, alla mattina come all'ora del tramonto, mentre i palloncini volano via e l'aperol scioglie il ghiaccio dello spritz.

martedì 7 ottobre 2014

"E' pur vero che, una volta in piedi, l'uomo non sa star fermo..."

Anche questa volta recensione doppia, ma sarà l'ultima per un po', i prossimi libri hanno un sapore unico, caratteristiche completamente diverse tra loro, e avranno bisogno di un posticino privato.
Questi di cui scrivo stasera li ho letti d'estate, portandomeli in giro, infilandoli in borsa all'ultimo minuto, spulciandoli in spiaggia, treno, parco, panchina. In realtà Camminare di Thoreau l'ho divorato in poche ore, è brevissimo. E sono un po' imbarazzata nel dire che "mi ha annoiata a morte". Avevo grandi aspettative, so che la regola del non farsi illusioni vale per tutto, anche per i libri, ma quando si parla di boschi, passeggiate, natura e vita all'aria aperta tendo a dimenticarlo. Quindi, a parte qualche sparuta frase qua e là (tipo credo nella foresta, e nel campo, e nella notte in cui cresce il grano), posso dire con franchezza che questo libro non mi è piaciuto. Tante ovvietà, tante affermazioni che mi rendevano nervosa, tipo quelle sull'impossibilità di capire la gente che passa le sue giornate in ufficio e non nei boschi a camminare, o quelle sulla terribile condizione delle donne che proprio ci stanno tutto il giorno in casa affacendate. Caro il mio Thoreau, mi veniva da urlare, non è che mi piaccia granché stare in un laboratorio sottoterra al posto che in mezzo ai prati, ma in qualche modo dovrò campare no? Poi certo, le famose parole dell'autore mi saranno utili quando mi farò vincere dalla pigrizia e tenderò a non uscire anche nei momenti liberi, ma di norma la forza di volontà per camminare non mi manca. E tra l'altro mi ritengo assai fortunata ad avere (per pochissimo ancora) un lavoro che mi permette flessibilità, tempo per me, scelte personali. Quindi lo liquido così Camminare, un saggetto veloce (per fortuna), che se non lo leggevo era proprio lo stesso.
Situazione diversa, invece, per Andare a piedi di Frédéric Gros, un libretto dal design adorabile e con tanti spunti interessanti. Purtroppo anche in questo caso la noia ogni tanto mi ha colta, in particolare dalla metà in poi. Le prime pagine sono sottolineate fitte fitte e a molti, presa dall'entusiasmo, l'ho consigliato con gioia. Ora forse non penso più possa andare bene per ogni lettore, però è un buon libro, questo sì.
Ci sono frasi come quella del titolo, ma anche come:

- Camminando, io sono soltanto un semplice sguardo
- Camminare. Ci colpisce, dapprima, come un immenso respiro di orecchi: si accoglie il silenzio come un gran vento fresco che scaccia le nuvole
- Non appena cammino, mi accompagno, divento due
- Perché anche la solitudine si condivide, come il pane e la luce
- Probabilmente altrove non è meglio, ma se non altro è lontano da qui
- Fuori è il nostro elemento: la sensazione precisa di abitarlo


E potrei continuare per ore, ma non lo farò.
Credo che chi ama camminare, chi si sente a casa guardando un panorama dall'alto, chi insomma non riesce a stare fermo, vivrà benissimo anche senza leggere questi due libri; di sicuro però potranno essere utili, azzarderei illuminanti, per chi alla filosofia del camminare si sta appena affacciando.


giovedì 2 ottobre 2014

La paura fa 90

Rannicchiata sul divano aspetto che cuociano le patate nel forno. Le mangerò con due tomini di capra un po' piccanti, perché sono raffreddata e intontita e ho bisogno di coccole. Per la stessa ragione oggi ho comprato un paio di pantofole a righe, di lana, che mi tengano compagnia negli inverni qui sull'Albero (nemmeno abitassi in Lapponia).
Per la stessa ragione, appena entrata a casa, ho acceso la radio. Ma di questo ne scriverò tra poco.
Domani parto per Vicenza, sabato ho un convegno che in verità mi interessa proprio poco, però via, è un viaggio e a me prendere il treno piace sempre un sacco. In queste sere malaticce ho anche scoperto che loro hanno un negozio in città e il trolley mezzo vuoto con cui parto rischia di tornare pieno. Seguendo la nuova collezione di Lazzari ho anche visto questa realtà che non conoscevo per nulla e me ne sono innamorata all'istante. Spero tantissimo di riuscire ad andarci, un giorno.
Ma torniamo alla radio ora, che ho acceso appena rincasata e che sta suonando anche adesso, mentre picchietto sulla tastiera del pc e l'Albero si riempie di profumo di forno. Ascoltando Caterpillar (Radio2, l'unica che seguo da tempo con estrema costanza) ma anche Decanter e tanti altri programmi, ho saputo che quest'anno la Radio festeggia il novantesimo anno di attività. Cioè sono novant'anni che nelle case si accende "l'apparecchio", si ascolta musica con facilità, si segue il radiogiornale, ci si appassiona a storie, dibattiti, trasmissioni intere. Io alla radio sono abituata, anzi, per me è una certezza. Da quando sono piccola, piccolissima. Se stavo in tinello con mamma si ascoltava la radio, se cucinavo con lei si ascoltava la radio, se andavo dai nonni c'era la radio e qualche anno fa, prima di andare a vivere da sola, mio zio mi ha regalato una piccola radio di legno, che mi ha seguito nella casa condivisa e che ora sta di là e mi manda le note di Extraterrestre proprio mentre scrivo (azzeccandoci anche parecchio, a dire il vero). La radio per me ha giustificato le assenze di mio padre, che non poteva mica staccarsi dalle sue radio, che riparava le radio, che collezionava le radio, che parlava nelle radio, che forse (non ne sarei mica così sicura) ascoltava la radio.
Una casa senza radio non la riesco a immaginare, nonostante io conosca moltissima gente che non ne possiede una, ma del resto conosco anche persone che non ascoltano musica, di nessun genere, perciò per quanto mi riguarda di notte gli unicorni corrono nel bosco, portando coloratissime fenici sulla groppa.
[pausa patate al forno e tomini, torno dopo]
Eccomi.
Dicevo, per me la radio è sicurezza, è conforto, è banalmente compagnia. Quante volte, ma lo abbiamo fatto tutti, mi sono precipitata con l'orecchio attaccato agli altoparlanti, carta di fortuna (scontrini, lista della spesa di mamma, tovagliolo) e matita per trascrivere in inglese maccheronico il testo di una canzone che passava proprio durante la cena e dovevo assolutamente scoprirne il titolo. Ora ci sono le app giuste che prendono carta e penna al posto nostro e ci danno la soluzione, ma il sapore no, non è lo stesso. Ho appena saputo che tempo troverò domani a nord est e me lo ha detto la radio, anche perché la tv non ce l'ho. La radio mi ha insegnato l'inglese, mi ha fatto emozionare quando trasmetteva la mia canzone del cuore, mi ha salvata dalla paura, principalmente da quella di restare sola. Probabilmente è per questo che appena entro a casa accendo il mio piccolo apparecchio di legno, a volte senza nemmeno troppa intenzione di ascoltare, mi basta sapere che lì qualcuno c'è e parla. Quindi, in questi giorni che su Radio2 ogni tanto passano dei brevi spezzoni di vecchie trasmissioni, così per celebrare i novant'anni, io mi commuovo un po'. Cioè dai, sentite che meraviglia.