venerdì 25 dicembre 2015

Personne


Musica.

Oggi è il venticinque Dicembre, è Natale.
Sono da mamma e non sono arrabbiata come negli anni passati. Forse mi sento un po' triste, forse angosciata, ecco sì, in ansia, ma non arrabbiata.
Nei giorni scorsi, sedute nella stanza giallina, di tutta questa presunta rabbia abbiamo provato più volte a occuparcene, senza apparenti risultati. Magari i risultati invece ci sono e questa mattina tranquilla, priva di scossoni e tensioni ma solo un poco malinconica, è la testimonianza di un piccolo successo.

Negli ultimi mesi sono successe molte cose, quasi tutte in sordina: cose che mi hanno addolorata molto, cose che mi hanno resa fiera di me, cose che hanno confermato quanto la gente possa essere cattiva e menefreghista ma anche dolce e premurosa, cose che mi hanno messa davanti a una scelta e cose che invece mi hanno tolto ogni possibilità di scegliere, cose che mi piacerebbe capire ma che probabilmente non mi sarà permesso neppure sapere, cose che hanno dimostrato la bassezza di questo mondo, di questo sistema marcio e privo di senso e cose che hanno ridato valore all'essenziale, al quotidiano, al bello, alle luci accese dietro le finestre.

Forse, con l'arrivo del nuovo anno, avrò pure un nuovo lavoro, è presto per dirlo perché io mi conosco, finché non sarò seduta, sola, con il contratto firmato e un fiume di emozioni nel cuore non sarò tranquilla, perciò preferisco aspettare.
Forse ho trovato il mio taglio di capelli definitivo, che mi fa sentire bene, che mi rappresenta nella sua irregolarità, nella sua capacità di essere spettinato per un momento e in ordine l'attimo dopo, nel suo color volpe, nella sua semplicità che passa inosservata e non dà nell'occhio.
Forse ho scoperto il ritmo della mia casa e sono riuscita a sintonizzarmi con lei, così da sentirmi meno ospite, così da non aver voglia di scappare, così da essere capace di restare e godermi i suoi angoli verdi, il tavolino con il vetro color crema, il balcone delle prove di giardinaggio, il tappeto caldo della sala.

Ma, quindi, cosa significa il titolo di questo post?
In francese, come pronome, vuol dire nessuno, ma per me vuole dire tutti. Perché tante, tantissime volte quest'anno, mi è capitato di essere sola quando stavo in mezzo alle persone e coccolata quando ero da sola. Perché molto spesso non mi sono sentita riconosciuta, anche da chi, in realtà, mi conosce benissimo.

Tra le cose che ho fatto negli ultimi mesi c'è stato il corso di francese, iniziato a settembre e terminato pochi giorni fa. Tre moduli, tre esami e una passione inaspettata per una lingua che non conoscevo, che pensavo mi sarebbe piaciuta, ma che non immaginavo avrei amato così tanto.
Essendo un corso intensivo di novanta ore, praticamente ininterrotte (sei a settimana), molti dei miei impegni sono dipesi dalle lezioni e tanti appuntamenti hanno ruotato attorno a quei pomeriggi fuori dal tempo, in un'aula brutta, in un posto brutto, ma con tante persone belle, sedute tutte insieme attorno a me. Rosalba, Marcella, Giovanna, Andrea, Alessandro, Laura, Alessandra, Federica e Gabriele sono stati i miei compagni di viaggio in questa avventura piena di stimoli, di risate, di ironia e di condivisione. Fabienne, la nostra insegnante paziente ma efficace, ci ha guidati con attenzione, senza mai dimenticare le caratteristiche di ognuno e questa, almeno per me, è stata un'enorme dimostrazione di affetto (oltre che di professionalità). Che Elena amasse le feuillage si è capito subito e si è ricordato per sempre, tanto durante gli esercizi quanto nelle battute. Allo stesso modo la passione di Andrea per la cucina, di Alessandro per Nizza o di Federica per i gatti ci hanno tenuto compagnia lungo tutto il corso. Ognuno di noi ha portato un po' di sé e lo ha donato agli altri, una cosa rara, che toglie immediatamente una n al pronome personne.

Ora, che il corso è finito, magari riusciremo comunque a studiare insieme, ci rivedremo, ma in ogni caso so che ad ognuno di loro devo un grazie, per aver trasformato in opportunità un momento destinato a farmi crescere, per avermi dimostrato che posso fare ancora un sacco di cose per me, da sola, senza sentirmi tale nemmeno un minuto.


domenica 13 dicembre 2015

"e la foglia scivola via"

Qualche sera fa mi sono imbattuta in questa poesia di strada.

Genova è tappezzata di fogli del Movimento per l'Emancipazione della Poesia e devo dire che molti dei versi che trovo per caso, camminando nei vicoli, non mi dispiacciono affatto, anzi (qui trovate il sito).
"Non siamo mai troppo lontani dalla...", c'è scritto. Lontani da cosa? Quei puntini di sospensione mi danno fastidio, perché vorrei una risposta.
In realtà vorrei una risposta a moltissime delle domande che mi pongo in questo periodo, domande che nascono da situazioni in cui mi ritrovo quasi sempre per sbaglio, mai per mia volontà e che si materializzano nell'aria rimanendo sospese, appunto, senza risposta.

...

Come ho già scritto nell'ultimo post sto facendo fatica ad aggiornare il mio blog. Non che sia un dramma, capita, però mi fa strano. Sono stata abbastanza costante sin dall'inizio e, soprattutto negli anni più recenti, ho pubblicato qualcosa ogni settimana. Ora non riesco, e il perché è una delle tante domande sospese. Ho tempo libero, lavorando da casa, eppure non ne trovo mai per entrare qui. Faccio tante cose, anche belle, eppure non ho voglia di condividerle qui. Scopro e vedo meraviglie tutti i giorni, eppure non mi viene da parlarne qui.

Allora ho pensato che di solito, quello che mi viene in aiuto quando sono bloccata, quando non so da che parte cominciare, quando mi pare di avere troppe cose da fare e tutte ugualmente urgenti, è l'elenco.
Quindi ecco un elenco sommario di ciò che sto facendo in questo periodo strano:

1. Scrivo, per il libro, per aggiornare i social network dell'associazione con cui collaboro, per Cindy (in partenza la produzione dell'ultimo Leggermente 2015!).

2. Studio, per il terzo esame di francese, poi anche questa avventura sarà finita e mi spiace proprio tanto: è stato divertente e mi è parso, finalmente, di fare qualcosa per me.

3. Ingrasso, come mai nella vita. Probabilmente i lieviti hanno deciso di rompere di nuovo i maroni, con un tempismo perfetto, considerando le vacanze di Natale e i trecentomila pranzi e/o cene a cui dovrò andare.

4. Partecipo, seppur un po' più defilata del solito, a due piccoli progetti natalizi: questo e il Secret Santa di Cindy. Il primo è un vero e proprio calendario dell'avvento fotografico; mi sto divertendo a scattare foto a tema (sbagliando per tipo cinque giorni di fila l'hashtag , ma vabbé) e mi piace l'idea di una parola precisa da provare a inseguire. Il secondo, chi non lo conosce? Il mio pacchettino è già stato spedito!

5. Costruisco, perché quando ho bisogno di rilassarmi è quello che faccio più volentieri, oltre a cucinare. Le ultime produzioni sono questo centro tavola Natalizio e questa collana, assemblata mettendo insieme un pezzo di gioiello trovato per strada, un ciondolino recuperato da mamma e una catenina di metallo.

6. Parlo, con chi mi ascolta, per provare a trovare quelle risposte di cui scrivevo prima. Non riesco a sciogliere il bandolo della matassa, ma non sentirmi sbagliata mi aiuta molto.

7. Cammino, facendo gite divertenti come quella di oggi. Un giro sulla cremagliera, una passeggiata facile ma lunghetta, una folle raccolta di bacche e rametti per abbellire la cucina (vedi punto 5).

8. Progetto, corsi che vorrei fare, cose che vorrei imparare. Prima tra tutte, per ora, la costruzione di timbri in gomma. In che senso? In questo. Una figata pazzesca, lo so.

9. Presso, le foglie che trovo, come se non ci fosse un domani. Nella foto che ho scelto per il post c'è la scatola di latta piena di foglie e fiori raccolti questo autunno e schiacciati con la mia meravigliosa Tessa La Pressa.

10. Sto ferma, ascoltando e guardando quello che succede. Mi costa una fatica boia, perché nonostante qualcuno mi dica che vivo alla giornata, sono umana pure io e a volte mi piacerebbe avere voce in capitolo, vedere che una mia azione genera una reazione più o meno nota, almeno un pochino prevedibile e non, nel migliore dei casi, completamente diversa dalle aspettative. Nel peggiore (e ultimamente molto frequente) dei casi, invece, quello che accade è l'opposto di quello che mi aspetto o che vorrei.

Io, imperterrita, respiro e sto a guardare, sperando che le prossime risposte siano facili. Non dico giuste. Ma facili.



mercoledì 2 dicembre 2015

Gli alberi lo sanno

Gli alberi sanno come ci si sente, perché lo fanno tutto il giorno.
Stanno dritti, proteggono, spesso sono costretti a piegarsi, a volte si rompono, perdono i pezzi, sanno essere meravigliosi, continuano a crescere nonostante le condizioni decisamente sfavorevoli, seccano.
In questo post cercherò di spiegare, o meglio, di giustificare, il mio incondizionato e antichissimo amore per gli alberi, nato quando da bambina costruivo l'album delle foglie pressate, dividendole sulla base della loro forma e dei loro margini.

Tutto nasce da non so nemmeno bene cosa. Vorrei scrivere di me, di quello che succede attorno alla vita in cui cerco di stare, ma non posso perché ci sono di mezzo situazioni, momenti e persone che non ho voglia di tirare in ballo. Anche perché è inutile: pure nelle circostanze in cui dai - non è colpa nostra - proprio no, una strada per uscirne c'è (quasi) sempre. Io, è evidente, non la sto percorrendo.

Iniziamo da questa foto, l'ho scelta per il secondo giorno del bel progetto natalizio a cui sto partecipando e l'ho scattata qualche settimana fa, a Torino, mentre con mamma camminavo sotto un enorme e bellissimo ginkgo biloba. Per chi non conoscesse questo albero spettacolare, il mio preferito in assoluto, si tratta di una creatura millenaria, diversa da tutte le altre, capace di abbellire le nostre aiuole, di riempire interi viali con i suoi ventaglietti colorati, di fare cose così.

Un'altra ragione che mi ha spinto a scrivere, dopo dieci giorni di silenzio e zero voglia di alzarmi dal letto (figuriamoci di buttare giù un pensiero), è stato un post di Enrica Tesio. Ora, la mia adolescenza non è stata di merda, tutt'altro. Ho fatto fatica, come tutti, mi sono sentita brutta e inadeguata, come tutti, ma sicuramente queste difficoltà le ho sofferte molto di più dopo il liceo (per esempio ora). È adesso che mi percepisco, e sono, indietro rispetto ai miei coetanei (per non parlare delle mie coetanee) e l'elenco di cose che una grande donna sa fare, diventare, essere, mi ha gettata nello sconforto più totale. Io non mi riconosco in nessuno di questi comportamenti, tranne che in quello paragonato alla vita degli alberi: "Dietro a una grande donna ci sono inverni infiniti. Gli anni si contano in primavere, ma la maturità si misura in inverni. E si impara dagli alberi, che sono matti gli alberi a spogliarsi quando fa freddo, e invece no, abbandonano il superfluo, si fanno oggetti e aspettano".
Ecco, a me questa parte ha ucciso. Perché è proprio così che mi capita di stare, quando non so più dove sbattere la testa, dove aggiustare il tiro, dove trovare una via d'uscita e mi ritrovo, inspiegabilmente e inesorabilmente, a cantare la canzone di un gruppo che nemmeno mi piace così tanto. "Come puoi vivere a testa in giù", dice, e se penso alla mia tillandsia perennemente capovolta so che si può vivere così tutta la vita, con poca (pochissima) acqua, zero attenzioni e un goccio di luce.

Oggi, al corso di francese, abbiamo giocato al "Ritratto cinese", il "Se fossi" italiano, per intenderci. Ognuno ha dovuto leggere una frase prestabilita e poi adattarla a se stesso; per esempio, se fossi un colore sarei il blu, se fossi un fiore sarei la rosa, se fossi una città sarei New York. Ecco, a me è capitato "se fossi una stagione, sarei l'autunno", l'Automne. Quando ho dovuto sostituire la risposta con un'idea più personale non avevo nulla da cambiare e la mia insegnante è stata subito d'accordo: "Bien sûr Elena, le foliage!"...lo sanno tutti, pure Fabienne.

Quindi, per finire, non mi resta che chiudere il cerchio ricordando gli ingredienti del profumo che mi ha regalato mamma per un un compleanno molto anticipato: il Philosykos di Dyptique. I motivi di questo acquisto sono tanti, innanzi tutto la fama. Lo ammetto, uso profumazioni al fico da anni e ogni volta che ho provato a cambiare e a chiedere qualcosa che avesse la stessa base poco dolce ma molto avvolgente e legnosa mi è stato consigliato questo Eau de Toilette. Io non lo avevo mai annusato, fino a che, cercando tra le profumerie della mia città, non l'ho trovato: è stato amore a prima vista, nonostante il raffreddore. Perché ne scrivo in questo post? Perché Phylosikos non ha note fiorite, è composto da essenze di legno di fico e di cedro e, effettivamente, annusandolo sembra di stare in un bosco d'estate, in piena macchia mediterranea. È un profumo fatto di alberi, il mio profumo. Non poteva essere altrimenti.

domenica 22 novembre 2015

La tempesta perfetta

Nelle ultime settimane mi sono accorta di una cosa.
Mi sono accorta che non ho (più) molto da dire su questo blog.
Anche le visualizzazioni parlano chiaro, comincio ad essere stufa e a stufare. Magari è un momento passeggero, magari non lo è.
In realtà, forse non ho (più) molto da dire in generale, anche nella camera gialla le sedute scorrono lente e silenziose, ma qui specialmente mi pare di riempire pagine giusto perché vanno riempite.

Ma vanno riempite per chi? Per cosa?

Per me, ne sono sempre stata convinta. E lo sono ancora.
A patto che non diventi un obbligo, soprattutto ora che, lo posso proprio dire, il mio lavoro è scrivere (nel senso che mi pagano per farlo). Non so quanto durerà, non so nemmeno se siano effettivamente due cose collegate, sta di fatto che per ora è così.
È buffo, perché per la verità ho pensato molto a questo post e lo sto scrivendo con urgenza, seduta per terra, sul lungomare, circondata da biciclette, pattini e skateboard che mi sfrecciano attorno. Il cielo è azzurro e fa caldo nonostante questa notte sia passata la tempesta perfetta: un vento incredibile, mostruosamente amplificato dalla bella pensata dei vicini di sopra di lasciare le persiane aperte senza fissarle ai ganci. Tre ore buone di colpi continui, ma anche di vasi volati, scarpe e vestiti sparsi in piazza, pioggia ghiacciata e pezzi di vita che rotolavano nei vicoli senza luce.

È domenica e dopo la tempesta è uscito un sole bellissimo, l'aria è più fredda (finalmente) e nelle ultime ventiquattro ore ho fatto alcune delle cose che più amo fare in assoluto, compreso scrivere. Ho cucinato, chiacchierato, camminato, raccolto foglie, riso, scattato foto. Le foto, se tutto va bene, andrò pure a vederle tra poco, a Palazzo Ducale, provando per la terza volta in due giorni a visitare la mostra di Brassaï. So già che mi piacerà, perché racchiuderà la Francia e parlerà d'amore. D'amore per il mondo e per i piccoli incontri quotidiani, quelli che capitano spesso e che dobbiamo fissare bene nella memoria, concentrandoci.

Pausa, si torna indietro verso il centro.

Riprendo a scrivere che è quasi l'ora di cena, sul divano di casa. La mostra l'ho vista ed è bellissima. Ho letto i pannelli scritti in francese, mi sono persa tra le fotografie di una città che sta nel mio cuore senza essere mai stata nei miei occhi e ho ripensato ai piccoli incontri quotidiani di oggi. Eccoli:

- I frutti lilla del ginkgo biloba (che non sapevo nemmeno esistessero), sparsi sul prato
- La cascata del parchetto di nuovo attiva, con la grotta percorribile. Quando ci entri sei diviso a strisce dalle ombre delle rocce e dalla luce che filtra attraverso l'acqua
- La mia città a strati: gli alberi in autunno, le case, le navi incastrate tra i palazzi, ancora le case e la neve sui monti lontani
- Un ragazzo disabile a braccetto con un uomo troppo vecchio per essere suo padre e troppo in forze, ancora, per essere suo nonno. Sembrava si reggessero a vicenda e sembravano stanchi, disorientati, davanti a me che invece camminavo verso il mare, spedita e maledettamente fortunata
- Il sole sul pelo dell'acqua, talmente forte da farmi male agli occhi
- I ragazzi che suonano i tamburi sotto i portici
- Questa foto di Brassaï


sabato 14 novembre 2015

Chi muore si rivede


Non scriverò di Parigi.

Questo non vuol dire che, come tutti, non sia stata sveglia fino a notte fonda e non stia seguendo notizie, aggiornamenti, giornali.
Non sono abituata alle dirette TV (perché a casa mia la tele non c'è) e ieri sera, qui da mamma, sembravo in trance. Credo che la mia bella autoreferenzialità da occidentale abbia fatto il suo lavoro, che gli ormoni da trentaquattrenne abbiano tremato all'idea che il mio corpo possa un giorno mettere al mondo un figlio in un posto del genere, che la paura di una guerra alle porte (alle mie, di porte, perché altrove c'è già da anni) abbia giocato a sfavore della mia notte di sonno.

Ma, di Parigi, non scriverò.

Questo post è in canna da un paio di giorni, ho sognato mio padre martedì e mercoledì e mi ero ripromessa di scriverne se lo avessi sognato una terza volta. Giovedì non si è presentato, venerdì, ovviamente, sì.
Era moltissimo tempo che non capitava, forse da prima dell'anniversario di luglio e, a dir la verità, non mi mancava affatto.
Però, come sempre succede quando la mia vita è sotto prova, quando le cose attorno a me stanno cambiando (anzi, stanno provando cambiare), quando ci sono nuove possibilità ma non è ancora detto che saranno per me, lui torna.
Come se dovesse controllare, come se sentisse il bisogno di starmi accanto, di dire la sua, ma anche di rallentarmi, zavorrare i miei passi, distrarmi dagli obiettivi. Quando lo sogno non sto bene, perché a differenza del passato non ho l'illusione che sia ancora vivo, anzi, so benissimo che verso la fine del sogno ci sarà il momento dei saluti: uno strazio senza fine, fatto di abbracci, porte aperte e buie nelle quali lui entra... e sparisce.

Quindi, la prima notte ho sognato che ci prendevamo un caffè a casa, in cucina, in una mattina d'autunno. Poi uscivamo dalla finestra di camera mia per guardare una vicina che si sposava, accompagnata all'altare da suo papà, su una vespa rosa addobbata con bacche arancioni e fiori bellissimi.
La seconda notte eravamo in centro, nei vicoli, e lui voleva a tutti costi un gelato. Arrivati in gelateria il suo gusto preferito non c'era. Scena isterica. Del resto, il gusto "braccialetti", una sorta di crema rosa piena di stelline colorate, io non l'ho mai visto.
La terza notte (quella passata) eravamo a Parigi, ai piedi della Tour Eiffel. Io, come sapete, a Parigi non sono mai stata, ma nel sogno credo ci abitassi addirittura. Ricordo che camminavamo svelti, arrampicandoci sulla struttura di ferro della torre, scappando da bombe e spari, cercando di metterci al sicuro.

Verso la fine del sogno, in un piccolo cortile, in mezzo ad amici e parenti riuniti, come al solito ci abbracciavamo.
All'inizio non riconoscevo il suo corpo, ero a disagio. Poi un odore, la mia mano che si alza e gli carezza la nuca, lo stomaco che esplode e il pianto che comincia ad uscire, rumoroso e inarrestabile, mescolato ai singhiozzi di lui e a quelli di tutte le persone attorno a noi, finalmente consapevoli che non tornerà mai più.
E' strano tutto questo, perché nella vita di ogni giorno non posso dire che mi manchi molto. Non mi mancava dieci anni fa, tanto meno mi manca adesso.

Ma mi è venuto un dubbio: mi è venuto il dubbio che mi manchi nel futuro. Che l'idea di conquistare qualcosa, di iniziare un percorso nuovo, di proiettare la mia vita un po' più in là, mentre la sua resta ferma a quel maledetto luglio, proprio non mi vada giù. Almeno di notte.

P.S. Nella foto la sua pianta di caffè, con i frutti verdi, i frutti gialli, i frutti rossi e le bellissime foglie lucide. E forti.

domenica 8 novembre 2015

Natale a Novembre

Oggi, anche se siamo solo ai primi di Novembre, sembrava Natale.
E non per il clima, che anzi era quasi settembrino, ma per l'aria di festa che si respirava.
Mi sono svegliata e ho fatto colazione con il pane dolce e la marmellata di bergamotto, sapevo che mi avrebbero atteso alberi, foglie, sole, amici e la macchina fotografica nuova. Forse qui non lo avevo nemmeno scritto, ma qualche settimana fa, in pieno Festival della Scienza, mi hanno rubato la reflex. Ci sono rimasta male, per le modalità del furto più che per il costo della fotocamera, che per me però aveva un grande valore affettivo: la mia prima reflex comprata con i soldi di una cosa importante che stava finendo. Era un oggetto proiettato nel futuro e perderlo così, mentre stavo lavorando, mi è dispiaciuto moltissimo. Poi, come faccio sempre, non ho dimenticato ma ho chiuso tutto in un cassetto. A chiave.

Inaspettatamente, pochi giorni dopo, i colleghi mi hanno regalato una nuova macchina, più bella di quella che avevo, più leggera e maneggevole, con una sensibilità ai colori davvero sorprendente. Quale occasione migliore, di una domenica d'autunno nel verde, per provare i primi scatti (il primissimo in assoluto è quello quassù)?
Via con il motorino e poi a piedi, prima sotto gli alberi carichi di foglie gialle, poi in un piccolo cimitero dove il tempo pareva essersi fermato tantissimi anni fa, tra ragnatele, muschio, funghi e pozze di fango.
Bianconi che volavano bassi, gatti diffidenti, rampicanti rossi come il fuoco, semi bianchi che sembravano neve, corbezzoli ancora acerbi che legavano la lingua, momenti silenziosi che a me dicevano un sacco di cose.

E poi gli amici, tutti quanti, tutti i vicini del gruppo whatsapp, l'unico che tollero sul telefono senza sbattere la testa contro il muro ad ogni notifica. Siamo tanti, siamo undici (se non contiamo i bimbi), e oggi, complici tre compleanni ravvicinati, siamo andati a pranzo fuori.
Qui.
Eviterò di scrivere il menù completo, al quale è impossibile sottrarsi perché il gestore porta tutto in tavola come se fossimo a casa, la domenica, con la mamma che ti riempie il piatto perché ti vede deperito. Certamente fino a domattina non toccherò cibo e continuerò a pensare al minestrone clamoroso che ho mangiato oggi, senza fare il bis solo perché dopo mi aspettavano i ravioli.

Abbiamo chiacchierato un sacco, abbiamo aperto i regali (come a Natale!), abbiamo giocato a palla con Martino e aspettato (invano) che Adele si svegliasse. Abbiamo guardato (e fotografato) tramonti, bevuto amari, raccontato viaggi e riso un sacco.
Era da un bel po' che non capitava così e viste le notifiche sul gruppo whatsapp che continuano ad arrivare so che non lo penso soltanto io.
Questa bella domenica chiude un week end strano, iniziato di venerdì e formato da tante cose diverse.
Ieri, per esempio, è stata una giornata un po' stancante perché ho lavorato fuori Genova e mi sono svegliata alle cinque di mattina, reduce da un viaggio a Torino con mamma, bellissimo ma di sicuro per niente riposante. Con lei ho pranzato nel bar che ha inventato i tramezzini, sono andata da Melissa a fare le scorte per l'inverno, ho visitato la mostra di Monet e sono entrata qui, dove ho ricevuto un regalo di Natale anticipato e inaspettato.
Anche se è Novembre.

domenica 1 novembre 2015

Effetto loto

Il Festival è finito. Anzi, tecnicamente finisce tra mezz'ora.

Stasera c'è la festa con la consueta foto di rito sullo scalone, da domani si torna alla normalità.
Chi mi conosce sa che questi dieci giorni non sono mai semplici per me: passo la metà del tempo a non sentirmi all'altezza di niente e di nessuno, mi affanno nel tentativo di riuscire a vedere qualche laboratorio interessante tra un turno e l'altro, mi fiondo alle conferenze appena posso e buco molte delle occasioni mondane super frequentate dagli altri animatori.
Non sono persona da folla, con il mio prossimo sto bene, ma sempre per questioni di autostima faccio fatica a trascorrere intere serate in mezzo alla gente. A tanta gente. Più invecchio più peggioro, ma va bene così.

Detto ciò, il Festival della Scienza 2015 mi è piaciuto da matti, come non mi accadeva da anni. Una questione di aria, di tranquillità, di tempo gestito bene. Una questione di Equilibrio e mai parola chiave fu più azzeccata di quest'anno.
Nel laboratorio dove ho lavorato c'è stato un afflusso costante e gigantesco di visitatori: tante persone, molti bambini, scuole, famiglie; tutti educati, curiosi, simpatici, pronti a fare domande, a ridere per le battute, ad adattarsi.
Gli animatori con cui ho diviso i turni sono stati splendidi e non avrei potuto chiedere di meglio, compresi i ragazzi delle superiori che ci hanno assegnato come supporto: uno più bravo, disponibile e serio dell'altro.
Dal punto di vista della pubblicità, a sto giro i manifesti erano ovunque, c'erano persino il banner video sul grattacielo e gli annunci in metro. Poi, "l'elefantino che fa pipì sull'asterisco" a me è piaciuto un sacco, certamente più del "piccolo astronauta fallico" di tre anni fa.

Ovviamente gli ultimi dieci giorni non sono stati solo di Festival, ho continuato con i laboratori in altre sedi, con il corso di francese, con la solita vita insomma, anche se avrei voluto riuscire a scrivere di più.

Oggi, giornata senza turni, mi sono goduta la mia città e il mio Festival, esattamente come piace a me. Ho corso cinque chilometri nel sole, fatto colazione con caffè e girella all'uvetta, pranzato con mamma, girato per il mercatino dell'antiquariato (dove ho scovato, udite udite, la zuccheriera fungo che mancava alle mie tazzine fungo) e ascoltato una conferenza.

Ecco, quella conferenza è stata uno spettacolo e una coincidenza assurda: mentre passeggiavo in città ho trovato, per terra, questo biglietto (è un periodo così), una serie di appunti nei quali compariva il nome di Stefano Mancuso, autore per nulla nuovo nella mia libreria (ho già scritto qui di un suo libro che ho letto e amato). Appena ho visto il nome sul foglio mi si è accesa una lampadina: forse c'è una conferenza al Festival! Esatto, alle 16 iniziava Robot come piante, nella sala del Maggior Consiglio. Erano le tre e mezza e con calma ci siamo avviate, siamo riuscite a sederci comode davanti e ci siamo godute quasi due ore di dialogo, se così si può dire, tra Stefano Mancuso e Barbara Mazzolai.

Il tema, ovviamente molto interessante per me che adoro le piante e lavoro con i robot, è stato affrontato in maniera semplice, toccando argomenti complessi e mettendo in campo un sacco di esempi affascinanti, utili per spiegare il livello di "coscienza" dei vegetali, la loro sensibilità, la capacità di interazione tra piante diverse, la complessità di questo mondo spesso ritenuto inferiore a quello animale ma, in realtà, molto più avanzato. Come mi capita sempre, mi sono immedesimata e stavolta non l'ho fatto con un personaggio di un libro o con un attore, ma con un fagiolo, una mimosa, un tiglio. Ho imparato che le piante non amano essere toccate, che sfuggono l'ombra delle altre piante ma non la propria, che ascoltano volentieri tanti tipi di musica o meglio che percepiscono perfettamente i suoni e in particolare rivolgono la loro crescita verso quelli intorno ai 200 Hz. Perché? Perché è la frequenza dell'acqua. Le piante non possono fuggire da dove sono (sono esseri sessili...come mi sento io nella maggior parte del mio tempo) e per questo devono approntare molte strategie di difesa; alcune di esse hanno comportamenti sociali, come i girasoli che crescono bene se in comunità, le radici di un albero tipo il tiglio hanno più apici dei neuroni presenti nel cervello umano...e potrei continuare all'infinito.

In realtà, anche tutta la parte tecnica dedicata all'applicazione delle caratteristiche vegetali agli studi di robotica mi è piaciuta molto. Stampa 3D, automazione, scienza dei materiali: pensare che un robot possa essere costruito ispirandosi ad un'abilità vegetale mi sembra meraviglioso.
Trovate qui molte info utili sul progetto Plantoid, ma penso possa essere buona cosa cominciare credendo nelle piante e nelle loro enormi capacità adattive. Il loto completamente idrorepellente, in grado di mantenere sempre pulite le foglie nonostante viva in acque putride, è e sarà per sempre mio maestro.

lunedì 26 ottobre 2015

Controluce

E' questo il momento che amo di più in assoluto. Quello che arriva un attimo dopo lo spiegone e un attimo prima dell'attività pratica vera e propria.

Quei minuti preziosi in cui i bambini cominciano a cercare i materiali da usare, a prendere confidenza con essi e a immaginarli come parte dell'oggetto che costruiranno. Lì in piedi, controluce, visualizzano il loro personalissimo progetto e scelgono ciò che meglio rappresenterà l'idea che hanno avuto.
Osservo sempre in silenzio questo tempo prezioso, li guardo interagire, scambiarsi opinioni, arrabbiarsi se qualche compagno prende un materiale al posto loro o essere generosi con chi è rimasto senza.

Ci sono giorni che mi pare di non farcela, giorni come questi, in cui corro da un laboratorio ad un altro, in cui mi sembra di non riuscire a dare il meglio di me, di non essere in grado di lasciare qualcosa ai ragazzi con cui trascorro quelle ore.
Passo minuti interi in piedi su una gamba sola, cercando di spiegare al meglio il concetto di equilibrio e tutto quello che si porta con sé. Dov'è il baricentro? Cosa è il bilanciamento? Quanto conta la forza di gravità?
Dai sei ai quindici anni, per ora, chissà nei giorni che verranno.
Mi piace avere i loro occhi addosso, mi piace dare la parola a tutte le mani alzate, una dopo l'altra, perché nessuna domanda, nessuna storia, nessuna questione, è meno importante di un'altra.

Ma non è quello il momento che amo di più.

L'istante migliore è, come scrivevo all'inizio, quello in cui io non ci sono più.

Quello in cui a malapena ci sono loro.
Quello in cui sicuramente hanno spazio le idee. Sembra di vederli, i pensieri, che prendono forma piano piano, ognuno dalla testa del singolo, ma tutti pronti ad aggrovigliarsi e diventare un'unica, grande, idea.

E' in questo momento che anche i più timidi riescono a dire la loro, magari con un aiuto, magari semplicemente sfruttando la titubanza dei compagni che di solito si mostrano sicuri e infallibili.
E' così che i gruppi più fragili costruiscono l'oggetto migliore. Che i bambini più piccoli finiscono per primi la loro creazione. Che le femmine stupiscono tutti con i risultati più soddisfacenti. Che i bulli della classe aiutano le vittime di sempre, non solo perché sono finite per sbaglio in squadra con loro, ma anche perché davanti a un obiettivo comune non c'è differenza che tenga.

Ed ecco, alla fine, ciò che mi massacra ogni volta.
Accorgermi che è questa la cosa che mi manca di più, tutti i giorni, in tutte le circostanze, con tutte le persone: non avere (quasi) mai un obiettivo comune, ma ritrovarmi sempre maledettamente sola lungo la mia strada. Non per forza giusta, non per forza sbagliata, ma molto spesso vuota.



domenica 18 ottobre 2015

Avere Paura

Oggi ho scoperto una cosa: ho scoperto che la scrittura è davvero una passione grande, se, dopo averle dedicato otto ore, quello che vuoi fare di più è continuare a scrivere. Cose di lavoro, cose per le amiche, di nuovo cose di lavoro (un altro) e ora cose per me, che ho voglia di tirare fuori già da qualche giorno.

Nella foto quassù c'è il cartellino rosso di Camminando pe e lische, una delle marce che, acciacchi e impegni permettendo, io e mamma facciamo ogni anno. L'immagine è di domenica scorsa, avevo da poco superato il guado dove Andrea costruiva ponti di pietra sul fiume che nemmeno nell'Impero Romano, e stavo pensando sempre più intensamente alla polenta e al prato al sole dove l'avrei mangiata. Erano le undici e avevo una fame da lupi.
Oggi, a distanza di una settimana, sono stata in casa tutto il giorno, a letto per la precisione, mangiando plum cake, biscotti, mele rosse e riso al pesto. E bevendo Chianti per cena.

Ho iniziato a scrivere all'una e ora che sono quasi le dieci di sera non ho ancora smesso, né smetterei più.
Ascolto musica perfetta, tipo questa che sta passando ora, che non è particolarmente allegra come non lo è affatto il suo video, ma del resto nemmeno io lo sono, quindi mettiamoci l'animo in pace.
Se poi io non sono allegra è perché ho paura, una paura che non ho mai provato, per cose, persone e situazioni che non pensavo potessero suscitarmi questo sentimento. Invece è accaduto e io non so assolutamente come comportarmi.
Per ora tento, senza grande successo, di fingermi morta come fanno molti animali. Cerco di muovermi senza spostare l'aria, di vivere senza essere notata, di alzarmi, fare colazione, andare al lavoro, pranzare con quello che ho preparato la sera prima, seguire il corso di francese, cenare, leggere o scrivere qualcosa e dormire. Poi certo, dentro di me scoppio, di cose che vorrei fare e dire ma so che non è tempo.

Ottobre, mese di letarghi e di foglie che cadono.
Adeguiamoci.

Tra pochi giorni comincia il Festival della Scienza e io, per la prima volta, non vedo l'ora. Anni di esperienza mi hanno assicurato un orario perfetto, con turni calibrati al millimetro che mi lasceranno un sacco di tempo per dedicarmi ad altro o, se mai fosse possibile, per riposarmi.
Ci saranno concerti, serate di festa, laboratori bellissimi da seguire con le amiche, bimbe appena nate da visitare, bimbi un po' più grandi da salutare e, lo spero tanto, camminate fuori città che mi aspettano. Dopotutto basta una funicolare. O un autobus.
Basta che il mio piano di resilienza funzioni per riuscire a godere di questa stagione meravigliosa, continuando a scrivere per il progetto più grande che c'è in cantiere e alimentando ogni giorno la mia voglia di scoprire e imparare cose nuove.
A questo proposito il corso di francese sta andando alla grande: comunque finirà, il mio cervello sarà abitato da suoni e significati che prima non conosceva, credo che a quasi trentaquattro anni sia una cosa bellissima, provare a imparare una lingua diversa dalla propria.
Soprattutto quando con le parole si cerca di costruirsi il futuro.

E' chiaro dal titolo del post che immaginavo di andare a parare altrove, il fatto che non sia stato così mi riempie di gioia: significa che sta funzionando, che se voglio sono salva, che se mi proteggo (magari anche con un bicchiere di Chianti :-) ), acquisisco una visione nuova delle cose, più dipendente da me che dal resto del mondo, e mi tranquillizzo almeno un po'.
Il succo non cambia, lo so, ma cambio io che lo guardo e che cerco di mandarlo giù.

domenica 11 ottobre 2015

16 km di desideri

Disclaimer: sono stanca e assolutamente non in grado di scrivere un post sensato, nonostante le buone intenzioni, nonostante le belle esperienze dell'ultima settimana. Ecco il perché di questo elenco, nemmeno troppo sommario, di cose da comprare. Superflue (per usare un eufemismo).

1. I Dansko clogs, in vendita da Flamingo Bergamo, non so ancora il colore e nemmeno se li vorrei aperti o chiusi dietro, ma son dettagli (già che ci sono potrei allargarmi e portarmi via anche calze e vestito).
2. La nuova collezione di Lazzari, in particolare: questa camicia con i dinosauri (indispensabile, per me che non porto quasi mai camicie), questo abito con i cavallini (che potrebbe essere un'ottima terapia d'urto, visto che ho paura dei cavalli), questo maglione con le ghiande (ma solo in caso non riuscissi a comprarmi il prossimo vestito), questo vestito (perché, che ve lo dico a fare, è autunno), questa salopette (che quella di Lazzari che ho comprato l'anno scorso non l'ho tolta quasi mai!)
3. La borsa con i loti di Isabò e Insunsit (è possibile avere, in una sola borsa, delle stampe così belle, un colore così bello e una forma così bella? Evidentemente sì)
4. Le #Tuliclips di Tulimami (dal momento che sono una più bella dell'altra, non sceglierò: le vorrei tutte)
5. Una My#selfie di Faccio e disfo apposta per me (perché è una vita che la vorrei, perché le avventure estive su Instagram delle sue bamboline senza storia mi hanno rapita, perché partecipare al racconto è stato divertentissimo)
6. Un lavoro della bravissima Enrica Trevisan (per esempio questa spilla con i ginkgo, oppure questa con il giardiniere barbuto, per non parlare della serie dedicata alla mia amata Frida)
7. Qualche pezzo dai Vintage Corner di Maison Du Monde (in particolare vorrei tutta la collezione Berlino, chi conosce casa mia sa che sarebbe perfetta!)
8. Un bastimento carico di prodotti di Melissa Erboristeria (perché quelli che ho comprato all'inizio dell'estate stanno finendo e poi perché ricevere un pacco da Valeria è sempre bellissimo. Per esempio, in questo istante, vorrei tantissimo questi)
9. Questo libro (perché mi sembra meraviglioso e indispensabile)
10. I capelli nuovi (ma, come si evince dalla foto, dal parrucchiere ci sono appena stata...un desiderio in meno sulla lista!)

P.S. Il titolo si riferisce alla camminata da cui sono appena tornata: sedici chilometri di sentieri, più di quattro chilometri all'ora. Io e mamma siamo state grandi!

mercoledì 30 settembre 2015

Caprioli e Capriole

Ho una lista dei desideri (dicesi wishlist) lunga tre chilometri, che parte dalle creazioni di Tulimami e arriva alla collezione di Lazzari (imperdibile come sempre), passando per l'adorato Flamingo e per gli scaffali di Maisons Du Monde e delle sue maledettissime Tendenze Vintage.
Però oggi è il giorno dei caprioli e delle capriole e non scriverne sarebbe un reato, l'elenco delle cose materiali (che più materiali non si può) che vorrei comprarmi o regalarmi o trovare sotto l'albero o nella cassetta della posta dovrà aspettare la prossima settimana.

Oggi, dicevo, è un giorno speciale, è una di quelle giornate da io di cui ho scritto l'ultima volta.
Sono fortunata, perché la bella sensazione di vivere esattamente come sono davvero sta continuando, anche se più faticosamente di prima.
Più faticosamente di prima semplicemente perché ci vanno di mezzo gli altri, ma fa parte del gioco e il prossimo obiettivo è quello di proseguire come se nulla fosse, scavalcando, aggirando, superando intoppi, richieste, blocchi e difficoltà. Sembra facile? No, non lo sembra e non lo è.

Comunque, oggi ho trascorso tre ore in una quinta elementare, dove ho portato uno dei laboratori sul riciclo dei rifiuti (in particolare di quelli RAEE) che sto facendo in questo periodo. L'attività che ho pensato, come al solito, non riguarda semplicemente la robotica, ma si sviluppa anche all'interno di altre discipline, una su tutte l'ecologia e in particolare lo studio della biodiversità.
Prima di affrontare questo argomento, però, ho pianto.
Che sarebbe arrivato il giorno della commozione in classe in fondo in fondo lo sapevo, che sarebbe arrivato oggi, invece, non lo immaginavo proprio.
Appena entrata i diciotto bambini seduti tranquilli a ferro di cavallo (evviva!) mi hanno accolta salutandomi e leggendo, ad alta voce, una ricerca fatta sull'Associazione dove lavoro. Sapevano tutto e sapevano anche il mio nome, hanno citato l'importanza dell'attività di gruppo e dell'impiego di materiali di recupero e hanno concluso dando il via ad una serie di domande. Ognuno mi ha chiesto qualcosa:
- Da quanto lavori nella robotica? Ti piace? Cosa è la robotica? E' difficile? Dove si trova il posto in cui lavori?
Io ero allibita, emozionata, avevo paura di tradire le loro aspettative, mi sembravano tutti più preparati e pronti di me.
Alla fine è andata benissimo: ho fatto una lezione meravigliosa, lo ammetto.

Abbiamo sviscerato ogni parola nuova, ogni vocabolo mai sentito prima, abbiamo cercato sinonimi e contrari e fatto decine di esempi. È facile quando sui banchi c'è un vocabolario, che gira gira gira, passando di mano in mano, di sguardo in sguardo, di voce in voce.
Il maestro ha chiesto ai bambini di raccontarmi cosa fanno quando scoprono una parola nuova: bene, mi hanno risposto che la ripetono, ne parlano, la usano tanto, la portano a casa. LA PORTANO A CASA.

Tra le presentazioni iniziali, così belle e spontanee che mi pare di aver imparato già i nomi di tutti, e la ricreazione in cortile, abbiamo osservato le caratteristiche degli animali presenti nel territorio dove i bambini vivono e dove vanno a scuola. Ghiri, lucertole, cinghiali, vipere, cormorani, cefali, aironi, rospi, salamandre, lepri e tanti altri, comparsi uno per uno sullo schermo del mio computer, guardati e commentati, raccontati e analizzati. Tutti hanno portato esempi, aneddoti e curiosità, alzando decine di mani, ponendo domande sincere e regalandosi(mi) dialoghi meravigliosi come questo:
- Che caratteristiche ha il capriolo?
- Beh, ad esempio salta!
- E cosa ci dice che salta?
- Il nome! Deriva da capriola.


Oggi avevo previsto anche di disegnare il progetto dell'animale da costruire e, eventualmente, di scegliere i materiali tra i tanti a disposizione: sono a malapena riuscita a terminare la carrellata di fotografie e a lasciare "i compiti" per la prossima settimana. Ascoltare le loro storie e accettare i loro pezzi di focaccia per merenda è stato più importante.

giovedì 24 settembre 2015

Una settimana da Io

Quella che è appena trascorsa dall'ultimo post pubblicato è stata davvero una settimana da Io.
Nel senso che tutto ciò che mi è capitato, tutte le giornate che ho attraversato, tutte le cose che ho fatto, mi hanno rispecchiata al cento per cento. Nulla mi rende più felice che essere me, contro tutto e contro tutti, senza fare errori giganti, senza dare troppo nell'occhio, senza restare al centro di niente, ma semplicemente andando per la mia strada. Quindi, forse, è il momento giusto per un elenco di quelli che tanto mi piacciono.

1) Un giorno e mezzo a Trento, davanti ai monti del cuore, nel silenzio, nell'aria fresca, nell'odore inconfondibile di cirmolo, leggero e nello stesso tempo intenso, attorno alla scultura in piazzetta. Un giorno e mezzo in questa città perfetta, due ore scarse di laboratori creativi per bimbi e genitori, due viaggi lunghissimi che hanno dato vita a un capitolo intero del libro. Quale libro? Quello che sto scrivendo, che anche se è per lavoro è un progetto bello, inaspettato, che mi obbliga a confrontarmi con le richieste degli altri, rimanendo fedele a me stessa. Prima o poi, racconterò tutto.

2) Una mattina a spasso per la mia città, in occasione dei Rolli Days, per entrare in luoghi visti sempre ma mai guardati veramente. Vicoli, strade, case, stanze, giardini, finestre, sale, affreschi, lampadari, quadri, ma anche farfalle cadute sul marciapiede e portate a spasso dentro Palazzo Reale, tranci di tonno alla piastra grossi come piastrelle, limonate fredde e telai circolari arrivati in tempo per l'autunno.

3) Un film bellissimo, Inside Out, che tanto mi ricorda questo post, perché altro non è che una vita di psicoterapia fatta a cartone animato; mi ha fatto piangere come mai (bugiarda, io al cinema piango sempre, e se non piango vuol dire che il film non mi è piaciuto!) e mi ha costretta a stare abbracciata a Salamino, il mio famoso cane di pezza, per una notte intera.

4) Due giorni di laboratori meravigliosi, la fase di partenza di un bel progetto, che ho costruito riflettendo molto, cercando di organizzare ogni cosa al meglio. Per ora mi sta dando enormi soddisfazioni, ma potrebbe essere altrimenti, quando passi intere mattinate a far lavorare ragazzi dalle vite un po' complicate, in classi con risorse scarse e tagliate da governi davvero per nulla lungimiranti? Magari trascorrendo minuti interi a costruire robot, disegnare idee e battere cinque alti? Io credo proprio che non potrebbe andare diversamente.

5) Due pomeriggi di francese, perché il mio corso intensivo non si ferma dinanzi a nulla, nemmeno davanti a due occhiaie che toccano in terra, un sorriso incerto perché metà del mio corpo vorrebbe dormire, un cervello talmente confuso da versarsi un bicchiere d'olio d'oliva al posto dell'acqua durante la cena a base di insalata marcia, dopo quattordici ore fuori casa e sette mezzi pubblici presi (per non parlare di quelli persi).

6) Una serata (questa in cui sto scrivendo) a casa di mamma, con gatta sulle ginocchia, riso e verdure per cena e tisana allo zenzero prima di dormire.

7) Un nuovo libro giallo che mi aspetta sul letto, perché, soprattutto in questo periodo che devo scrivere per forza, di leggere cose complicate proprio non se ne parla.

8) Un sabato di laboratori con i bambini che mi attende, perché ormai, se nel week end non lavoro, mi sento persa!

9) Una domenica di nanna, cucina e aperitivo di inizio autunno con gli amici, perché così sì che mi sentirò davvero a casa e che questa settimana lunga sarà sul serio una settimana da Io.

P.S. Nella foto il mio quartiere nel 1500 (dipinto nel 1800), scoperto con stupore nel giro dei Rolli Days (prima della farfalla, del tonno e della limonata).



giovedì 17 settembre 2015

Cinque funerali e un matrimonio

L'autista del matrimonio dei miei genitori era senza gambe.

In un certo senso questo post potrebbe pure finire così, un incipit del genere sarebbe più che sufficiente pure per aprire e chiudere un romanzo.
In realtà credo andrò avanti, anche se è giovedì e sono molto in anticipo rispetto al solito. Domani però parto per Trento in "missione laboratori" e la domenica la vorrei dedicare a scrivere per lavoro e a riposarmi: sono giorni pieni di cose e di pensieri, è necessario trovare tempo per me, per una camminata, per un libro, per un'ora di coccole al mio corpo sempre più stanco e sempre più diverso da come lo ricordavo.

Quindi, dicevo, l'autista del matrimonio dei miei genitori era senza gambe. Se avete messo su la stessa faccia inebetita che ho fatto io quando mia madre mi ha raccontato questa cosa non sentitevi soli: è normale. Naturalmente la prima domanda (anzi, la seconda, subito dopo a "Ma mi pigli per il culo?") è stata: "ma come faceva a guidare?". Semplice, con i comandi manuali.
Appurato questo dato importante, ci sono un sacco di altre notizie interessanti sul matrimonio che mi ha dato i natali. Vediamo di analizzarle, anche perché probabilmente si spiegano tante cose.

Oltre all'autista dimezzato, meritano una menzione speciale gli invitati. 11 (undici). Sposi compresi.
Mamma, papà, rispettivi genitori, zio, zia, zio acquisito, autista e fotografo. Sì, perché al momento di andare al pranzo che fai, lasci a casa l'autista che ha perso le gambe nel greto del fiume, saltando su una mina inesplosa, in pieno dopoguerra, mentre giocava con papà? No, non puoi. Per quanto riguarda il fotografo, invece, la sua presenza al banchetto nuziale pare sia stata una sorpresa: finita la cerimonia, alla domanda "dove andate a mangiare?" mia madre interdetta cercò un suggerimento nello sguardo di mio padre, che, preso dall'entusiasmo, non seppe rifiutare la richiesta del fotografo, avanzata unicamente per poter fotografare il consueto taglio della torta. Che non c'era.
Nell'album di nozze, infatti, alla fine delle pagine, dopo il classico scatto di rito ai calici incrociati, si vedono i miei che tagliano una specie di mini torta gelato recuperata all'ultimo minuto.

In verità, le stranezze (se vogliamo eufemisticamente chiamarle così) iniziarono ben prima, quando mia madre comunicò al prete della sua parrocchia che aveva finalmente deciso di sposarsi, ma non in chiesa.
"E perché mai, cara Maria?"
"Perché Giancarlo non è credente, è battezzato perché nato in piena guerra, ma non ha né Cresima né Comunione"
"Non c'è problema"
"Sì, ma con l'Eucarestia come facciamo?"
"Semplice, non gliela do"
"Ma Don, come fa a darla a me e non a lui?"
"E non la do nemmeno a te"
Dunque i miei si sono sposati in chiesa e non hanno preso l'ostia. Nada. Non so se gli altri invitati lo abbiano fatto, magari l'autista e il fotografo sì.

Questione vestito della sposa, complicatissima nei matrimoni normali, mostruosamente semplice per mamma e papà.
Uscirono insieme alla ricerca dell'abito adatto, lei ne provò uno, lui le disse "ti sta bene, prendilo". E lo presero.
Bon. Fine.
Così i miei si sposarono in beige.
Padre con completo a zampa d'elefante e cravatta. Marrone.
Madre con camicia e gonna a fiori anni settanta, capello corto, scarpe con il tacco basso. Marroni.
Bouquet bellissimo, pendulo, promesso in dono dalla nonna (paterna) e mai effettivamente regalato.
Se vogliamo dirla tutta, la prima scelta per l'abito della sposa furono un paio di pantaloni neri, ma mia nonna (materna) fece gentilmente sapere che in quel caso non avrebbe presenziato. Mio padre, invece, fermo davanti alla chiesa di un paesino in cui non lo conosceva nessuno, sotto il sole cocente del 10 di agosto, si allentò la cravatta nell'attesa della sposa e per tutto il tempo diede indicazioni ai passanti che, curiosi, gli chiedevano chi fosse il fortunato marito.

Dunque, ricapitolando, autista senza gambe, fotografo pronto a fotografare la torta che non c'era, abito a zampa per lo sposo, a fiori per la sposa. Meno invitati che a una festa delle medie, ma comunque più invitati del previsto.

Per chiudere con una chicca, la sera, dopo aver pranzato nel ristorante e salutato tutti i parenti, i miei tornarono a casa. Lì li aspettava l'operaio che stava mettendo su le porte e che con fare simpaticissimo li invitò a ritirarsi tranquillamente in camera da letto, senza curarsi della sua presenza, ma anzi offrendo loro un romantico barattolo di vaselina.
Mio padre, già allora pozzo senza fondo e ottima forchetta, prese dunque la solenne decisione di andare a cena fuori. Dove? Semplice, dove avevano pranzato (e dove, vedendoli arrivare, chiesero subito se avessero scordato qualcosa).

The End

P.S. Scrivere questo post ad alto tasso di ironia mi ha, in realtà, e più volte, riempito gli occhi di lacrime. Il titolo, va da sé, si riferisce alle persone della mia famiglia che non ci sono più. Cinque invitati su undici. Sposo compreso. Del fotografo, dell'autista e di due zii su tre, non ho più notizie.

sabato 12 settembre 2015

Thismustbetheblog #5: La Fenice rinasce da sé

La Fenice rinasce da sé è esattamente come questo fiore: delicata e accesa.

Ci siamo conosciute due giorni fa, di persona, ma sul web ci siamo scritte mille volte. Lei è una delle mie più assidue commentatrici, qui sul blog, mentre Instagram è il luogo dove ci "sentiamo" più spesso.
E sentiamo è senza dubbio la parola corretta, perché è nel mondo delle sensazioni e dei sentimenti che il rapporto con le ragazze di #thismustbetheblog si sta sviluppando. Pian piano, ma anche veloce veloce.

Con La Effe è andata così: in poco tempo è nato un contatto continuo, giornaliero e, nonostante ci separino davvero tanti chilometri, siamo riuscite a conoscerci di persona. In realtà ho avuto il piacere di stringere la mano anche a suo marito e ai suoi due bellissimi bambini, ho chiacchierato con loro davanti a gelati, cioccolate e caffè, ho giocato con lo squalo di plastica che il piccolo aveva portato via con sé dall'Acquario e ho scartato un bellissimo regalo scelto dalla mamma e dalla bimba più grande, un dono di legno al profumo di Trentino...cosa volere di più?
Abbiamo parlato del nostro passato, del nostro presente e del nostro futuro, tutti così incerti e simili, tutti così bisognosi di entusiasmo e coraggio. Abbiamo sfiorato la botanica mille volte, perché è uno dei tanti mondi che ci accomuna, ci siamo raccontate chi siamo e cosa facciamo ogni giorno quando nessuno ci vede, quando la nostra vita non è on line, quando la fretta non ci permette di rallentare.

La Effe ha delle mani bellissime, affusolate e abbronzate, con unghie bianche, tonde e perfette. Ha un sorriso che la illumina tutta, ha i modi da mamma in un corpo da ragazzina e una calma voce del sud, vibrante e calda, proprio come piace a me. Credo che avremmo potuto rimanere a parlare sedute sotto quella palma per ore, mentre la bambina saltava la corda, il bimbo giocava con compagni sconosciuti (e, da buoni genovesi, ben poco ospitali) e il papà osservava in disparte tutto e tutti, con rispetto e tranquillità.

Quando ho iniziato il viaggio di #thismustbetheblog non avevo idea di dove mi avrebbe portata, pensavo che mi sarei spostata spesso o, più probabilmente, che avrei cercato di incastrare impegni di lavoro e trasferte a incontri furtivi e pieni di affetto con le compagne di blog, con le ragazze cioè con cui trascorro già molti momenti della mia giornata. In realtà non è mai andata così: Cindy, Valeria e La Effe sono venute fino qui e hanno trascorso del tempo con me, nella mia città, solo per il piacere di incontrarmi. E quindi viva Torino che mi ha regalato il primo incontro con l'Inventore e l'inizio di questo percorso (la splendida mattina da Melissa), viva Genova che porta con sé Paola e che le ospita tutte quante ogni volta che vogliono salire quassù, tra i rami del mio albero, dove il mare arriva in giardino.



sabato 5 settembre 2015

Fuochi d'artificio

Ieri sono stata adottata per mezz'ora, ma di questo parliamo dopo.

Prima viene l'oggi: è il turno della luce meravigliosa che ha riempito questo sabato, tocca al temporale che ha ricoperto la città e spazzato via un po' di calore, è il momento della lasagna al pesto e della passeggiata in solitaria, prima di cena, per scoprire posti sconosciuti a un passo da casa.
Mentre fuori pioveva ho pensato a una cosa, ho pensato a quanto i tuoni degli acquazzoni di fine estate mi ricordino gli ultimi tre fuochi d'artificio, quelli che di solito concludono gli spettacoli pirotecnici, quelli che avvisano il pubblico e il pubblico comincia a disperdersi.
La pioggia di oggi ha spinto l'estate un po' più in là, ha regalato vantaggio all'autunno e il risultato è stata una bellissima serata lenta, con un sole fresco che ha abbracciato tutta la città prima di calare, con le belle di notte fuxia tutte aperte verso il cielo, con tante persone per strada, tanta gente che chiacchierava seduta sui muretti, tanti bambini che continuavano a giocare a nascondino tra i vicoli stretti.

Così è andato oggi, chissà come andrà domani.

Ieri, invece, ho passato il pomeriggio con Cindy.
Che pare di conoscerci da molto tempo ormai si sa, perciò le ore spese a parlare, raccontare, fare shopping, pranzare in un posto bellissimo , scattare foto stupide per lanciare progetti Instagram alquanto bizzarri, sono volate in un lampo. Con la promessa di riabbracciarci dopo il suo viaggio ci siamo salutate, io ho fatto due passi per testare l'autonomia del mio piede ribelle e ho deciso che no, che senza cambiare le scarpe non avrei potuto prendere un bus e spostarmi qualche chilometro più in là.

Allora, ho cambiato le scarpe.

Con i Pescura corallo che ho comprato non mi ferma più nessuno, pesano un quintale, fanno molto "ragazza nata in campagna e cresciuta al mare", ma del resto sono zoccoli di legno (faggio) e io sono una ragazza di campagna cresciuta al mare, quindi inutile farsi altre domande.
Poco prima di cena, al momento di rientrare a casa, mi sono accorta di non avere il biglietto del treno.
Da quel momento in poi...l'assurdo.
No problem, ho pensato, lo compro in stazione.
Biglietteria chiusa.
Ok, non fa niente, lo faccio dal distributore.
Nessuno dei due stampa biglietti urbani.
Va bene, dai, vado dal tabacchino.
Chiuso per ferie.
Fa niente, insomma, prendo l'autobus mandando l'sms all'AMT.
Il cellulare è spento, scarico.
Umpf, vado in stazione e chiedo pietà al controllore. Anzi no, vado in stazione e chiedo di poter fare il biglietto non maggiorato, dopo tutto io la buona volontà ce l'ho messa e questo sistema "è una vergogna!" (cit.).
Alla fine sono andata in stazione e mi sono fatta adottare da due signori con un carnet di biglietti: me ne hanno venduto uno e mi hanno ospitata accanto a loro fino a destinazione, sorridendo, senza fare domande e continuando a chiacchierare in italiano e in inglese, con tranquillità, eleganza e una gentilezza davvero fuori dal comune.
Una volta scesa dal treno, penso, vado a prendere la metro comprando il biglietto dalla macchinetta.
La fermata della metro interna alla stazione ferroviaria non ha la macchinetta.
Ok, prendo l'autobus, figurati se a Brignole non si trova un modo per acquistare un biglietto AMT.
Alla sera no, non si trova.
D'accordo, aspetto il 17 e poi chiedo all'autista.
Arriva il 17.
Salgo.
"Ehm, salve, senta, non ho il biglietto. Ho provato a farlo con il telefono ma è scarico. In stazione non c'è nulla per comprarlo, né tabaccherie, né distributori, né edicole. Ho qui con me i soldi contanti, cosa faccio?"
"Stai qui."

Tre fermate dopo saltellavo verso casa con i miei zoccoli, pensando che questa è la città che non vorrei, ma anche che questa è la gente che vorrei.

domenica 30 agosto 2015

Valigie

Una delle cose che amo di più è svegliarmi al fresco, con la gatta sui piedi e il rumore delle motoseghe che puliscono i giardini attorno a casa.
Quando capita, va da sé, sono da mamma.

Questa mattina è andata così, ho aperto gli occhi abbastanza presto e, gatta esclusa perché a sto giro aveva scelto un altro letto, sono stata accolta da tutto quello che più mi piace. Moka compresa, uccellini e cicale pure.
Sono giorni un po' rovinati da un piede dolorante, con visite mediche, fluidificanti e antinfiammatori annessi, sono giorni in cui provo a tenere a bada l'ansia e per ora ci riesco. Sono giorni in cui l'ipotesi di dover stare ferma mi sembra impossibile, con il lavoro che comincia, il Festival della Mente che mi aspetta e molti altri strascichi d'estate che vorrei tanto salvare: le corse al calare del sole, le gite, gli aperitivi all'aperto e le nuotate in piscina.
Ad ogni modo, come sempre, si vedrà e se la mia coagulazione ribelle ha deciso di rompere le palle proprio adesso, se i tendini o le ossa o quello che è di una caviglia già massacrata hanno voglia di farsi sentire così tanto, un buon motivo lo avranno. Per esperienza, è completamente inutile opporsi.

Quindi, questa mattina, mi sono alzata serena nonostante tutto, ho sorriso e ho iniziato il nuovo giorno con un libro, pensando d'istinto alla mattina di un paio di settimane fa, quando a svegliarmi alle cinque era stato un odore familiare. E orribile.
In realtà a quella notte penso tutti i giorni e ieri pomeriggio, mentre sopra alla mia testa passava il canadair che vedete in foto, ci ho pensato ancora di più.
Se c'è un incendio nei paraggi il mio naso lo avverte in un secondo. Ho sentito l'odore del ristorante che bruciava vicino a casa quando il rumore delle sirene era lontano anni luce e sono uscita in canotta, pantaloncini e ciabatte mentre i pompieri stavano ancora sfondando le porte per entrare. L'esperienza di tre anni fa mi ha insegnato molto, innanzi tutto un odore di cui avere paura. Poi mi ha insegnato che il mio corpo ha una capacità fisica di reazione agli avvenimenti psicologicamente duri che mai avrei pensato potesse esistere. Quella notte, con una contrazione fuori dal normale dei muscoli del collo, ho cominciato a camminare lungo le strade della fibromialgia e non mi sono più fermata.

C'è un'altra cosa, però, che ho imparato davanti al paesello circondato dalle fiamme: ho imparato che ognuno è la propria valigia.
Gli oggetti che, messa alle strette dai vigili del fuoco, io avevo scelto di portare via sono elencati nel post di quel 28 febbraio. Ma la mia borsa non è stata l'unica ad essere riempita di notte, in poco tempo e con tanta paura addosso.
C'era la valigia dei vicini, con i documenti medici indispensabili per la loro bimba
C'erano gli zaini con i computer dei ragazzi che lavoravano come informatici e che lì dentro tenevano tutto
C'era la busta con il rogito della casa, perché per gli anziani era la cosa più importante
C'era il sacchetto delle medicine, perché con la pressione alta non si sgarra e chissà quando ci faranno rientrare
C'era il faldone della pensione di mia madre, che mica poteva rischiare di perdere quarant'anni di lavoro in una notte

C'era quello che conta davvero.
Ognuno aveva affidato la propria vita ad una borsa e lo aveva fatto senza poterci ragionare sopra. Penso spesso che se non fosse stato un momento così tragico, fatto di silenzi da pelle d'oca, sguardi muti, gocce d'acqua su pareti di fuoco, freddo polare in un bosco rovente, avrei dovuto scattare delle foto. Aprire le borse, mettere in fila le cose, immortalare le vite degli altri per ricordarle ad ognuno, me stessa per prima, una volta terminata la paura. Quando sembra andare tutto storto, quando non pare esserci soluzione e invece magari non c'è nemmeno il problema.
Quando, come oggi, permetto ad una caviglia malandata di costringermi a girare in tondo, sull'orlo del baratro, fermamente convinta a stare in equilibrio e altrettanto spaventata all'idea di caderci dentro.

L'odore di fuoco delle cinque di due settimane fa è stato come aprire una di quelle valigie e scattare una foto: bisogna ricordare sempre cosa sia davvero l'urgenza, cosa meriti veramente la premura, in tutti i sensi.

domenica 23 agosto 2015

"Le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme"

Le "vacanze per me non sono ancora terminate, in verità.
Credo di rientrare ufficialmente al lavoro dal primo settembre, credo perché non lo so. Vedremo.
Tuttavia, anche se le ferie non sono finite, nella mia testa è tempo di tornare, è ora di riprendere in mano qualche filo semi abbandonato e di risalire sulla giostra degli impegni, delle scadenze, delle mail da inviare, degli appuntamenti da rispettare.

Credo che avere una settimana di tempo per abituarmi all'idea sia un grande lusso, e intendo onorare questa fortuna nel migliore dei modi: alternando un po' di lavoro da casa a un tuffo, una corsa, un film, una cena fuori.
A proposito di film, qualche sera fa ho visto La prima neve, di Segre. Lo volevo guardare da tempo, ne avevo sentito parlare bene e non ero riuscita ad andare alla proiezione organizzata a teatro.
Mi è piaciuto tantissimo.
Per mille ragioni, comprese colonna sonora e ambientazione.
La prima neve è un film semplice che si avventura lungo percorsi complicatissimi, strade di dolore, sofferenza, morte, abbandono, ma anche speranza, bellezza, vita, tranquillità, rispetto. Cammina lungo sentieri che entrano nei boschi dell'anima (e del Trentino).
I dialoghi, pochi, ti sferzano un momento sì e l'altro pure. Una frase su tutte (per me LA FRASE) è quella che ho scelto per il titolo del post "Le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme". E' proprio così che la penso anche io, da sempre, Segre lo ha "solo" detto al mio posto, spiegando a parole, con una dolcezza infinita, una mia eterna convinzione. E' quello che intendo quando sento la mancanza fisica dei boschi, dei sentieri, dell'erba e dei sassi. E' per questo che quando cammino spero sempre di vedere un animaletto e mi fermo ad annusare qualsiasi cosa.

Lo faccio per cercare il mio odore. Lo faccio per cercare me stessa in mezzo a tutto il resto. Il mio posto nel mondo.


Uno spazio che in queste vacanze ho trovato tante volte, molto più spesso di quanto mi sia capitato in passato, ma, soprattutto, in luoghi nuovi, in circostanze inaspettate, non solo tra gli alberi, non solo nel silenzio del verde.
Per esempio ho sentito il mio odore correndo: c'è un punto preciso che incontro dopo un paio di chilometri da casa di mamma, lì si ferma spesso una coppia di cormorani e lì, probabilmente complici tutte le belle sostanze che il mio corpo sotto sforzo comincia a sprigionare, mi ritrovo così tanto che credo potrei correre all'infinito. E mi scappa, ogni volta, da ridere forte.

Ho sentito il mio odore mangiando un piatto di pomodori, durante un pic nic di quasi pioggia, accanto ad un albero di ginkgo biloba. Quando ho visto i suoi ventagli verdi e gialli sparsi qua e là ho sentito di essere nel posto giusto. Ora le foglie stanno nella mia pressa di noce, perché le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme.

Non è mistero che io abbia preso peso. Cinque o sei chili più del dovuto, dieci più del passato. Non mi fa piacere ma non li perdo, non rinuncio abbastanza al cibo perché possa dimagrire e l'attività fisica che pratico più o meno costantemente a quanto pare non è sufficiente. Però l'altra sera ho indossato, per dormire, una vecchia sottoveste di mamma o addirittura di nonna e le mie nuove forme morbide l'hanno riempita bene, senza sparirci dentro, senza svilirne i pizzi, senza farmi somigliare ad un appendiabiti. Ora io e quella sottoveste abbiamo finalmente lo stesso odore.

Quando ho comprato i sandali di gomma non pensavo mi sarebbero serviti per trovarmi. E invece, una mattina tra granchi, scogli e meduse, ho camminato su un tappeto di alghe indossando la maschera, senza curarmi del sole che mi bruciava le spalle, della fame, della cellulite, delle cose che non vanno come vorrei. Appena ho sentito quei ciuffi marroni solleticarmi i piedi e ho visto i primi pesci sfrecciarmi davanti al naso, mi sono ricordata che anche il mare ha il mio stesso odore.

Sto scrivendo questo post a mano, con la biro, su un blocco a quadretti e fuori piove. Potrei continuare, potrei smettere. Smetto con un link a un nuovo progetto fotografico, che ho in mente da molto, ma che ho messo in pratica da poco. Spiego tutto nella didascalia della foto, peccato solo che non si possa sentirne l'odore, perché anche io, più spesso di quanto vorrei, mi sento a metà, ma se riesco a dare un nome ad entrambe le mie parti, il peggio è passato.

sabato 15 agosto 2015

30+1: la mia bucket list

Qualche giorno fa la mia cara Cindy ha pubblicato sul suo blog una bucketlist da togliere il fiato.
Ma cosa è una bucket list? E' una lista di cose da fare prima o poi (leggi: prima di morire).

Ora, senza essere troppo tragici, mi è sembrata un'idea carina, grazie alla quale provare a scrivere cose concrete e non i soliti propositi tipo: "vorrei essere sempre in grado di vedere il buono in ogni cosa", lodevoli per carità, ma così astratti e complicati che più astratti e complicati non si può.
Quindi, bando agli indugi, ecco la mia lista.
[Precisazione: alcuni dei punti sono uguali uguali a quelli di Cinzia, altri sfumati e declinati in modi un pochino diversi, altri completamente differenti. Sarebbe bellissimo far partire una catena di desideri lunga 31 volte. Perché proprio 31 non so, chiedetelo a Cindy!]

1. Imparare il francese (inizio il corso a settembre, poi si vedrà!)
2. Scrivere un libro
3. Visitare il Canada e l'Alabama (non chiedetemi perché l'Alabama, non ne ho idea)
4. Avere una casa in campagna (o al mare, insomma un rifugio dove nascondersi)
5. Percorrere la Transiberiana
6. Riprendere a guidare
7. Imparare a cucire
8. Vivere per un certo periodo in Bretagna e Normandia
9. Andare al Glastonbury Festival
10. Fare l'Altavia dei Monti Liguri
11. Organizzare una mostra fotografica su un argomento che ho in mente da anni
12. Visitare Parigi con mia mamma
13. Andare a New York
14. Avere un orto tutto mio
15. Visitare un giardino all'inglese, in Inghilterra
16. Vedere una brughiera in autunno (magari in Irlanda o in Scozia)
17. Tornare alla Biennale di Venezia
18. Ricominciare ad arrampicare
19. Coprire in bicicletta i percorsi lunghi che a piedi non posso fare
20. Percorrere l'Italia lungo le sue coste (una sorta di coast to coast tutto italiano, isole comprese)
21. Imparare a nuotare bene a stile libero
22. Vedere un alce (e pure accarezzarlo magari)
23. Tornare almeno una volta al Museo del Cinema di Torino
24. Iscrivermi a un corso di danza
25. Impegnarmi in un progetto di volontariato
26. Andare a un concerto dei REM (lo so, è un po' tardino)
27. Migliorare ulteriormente come cuoca e, in particolare, imparare a cucinare bene il pesce
28. Fare un corso di disegno, o calligrafia, o pittura...un corso artistico insomma
29. Gestire un negozio di fiori
30. Conoscere bene, ma bene davvero, la storia e la storia dell'arte
31. Dormire in una casa sull'albero e in un faro (possibilmente a righe :-) )

Ecco.
Finito.
Ci ho impiegato due giorni però. Perché avevo poco tempo e perché, sinceramente, non avevo 31 desideri pronti.
Credevo che sarebbe stato molto facile e invece no.

Rileggendo la mia lista mi sono accorta che:
- Non ho scritto cose legate all'apparenza e al super lusso (anche se un bella borsa intrecciata Bottega Veneta tipo questa, un profumo al fico di quelli rari e costosi più della suddetta borsa, un paio di decoltè nere fatte a mano o una notte in un hotel a cinque stelle con Spa, fragole, champagne e vista mozzafiato, schifo non mi farebbero)
- Non ho scritto desideri legati al lavoro, un argomento che ho lasciato fuori più o meno volontariamente e consapevolmente (non volevo rovinarmi il piacere di un elenco, che sarebbe diventato una triste quanto inutile rivendicazione di diritti)
- Ho scritto molte cose che potrei realizzare piuttosto facilmente, denaro, coraggio e autostima permettendo

Insomma, tolto qualche viaggio un tantino estremo (giusto oggi si meditava di visitare il Castello della Pietra e andrebbe già benissimo), credo di aver volato piuttosto basso. Ed è bello così, vorrà dire che avrò meno scuse per non provarci.

P.S. Cosa c'entra la foto? Nulla, ma mentre l'altra mattina correvo e pensavo ai punti da mettere in lista, ho incontrato sulla mia via questa lampadina.







domenica 9 agosto 2015

Agitazione

Sono agitata. Anzi, forse il termine corretto è angosciata.
Da cosa? Dal solito. Lavoro principalmente, immobilità di conseguenza.


Ieri sono stata tutto il giorno in spiaggia, a Bergeggi, che se dico che non c'ero mai andata sembro scema. Ad ogni modo, non c'ero mai andata.
Eravamo io, la vicina matematica pasticcera e la Manu. Siamo partite presto e tornate tardi, abbiamo preso il sole, abbiamo nuotato, fatto snorkeling, letto, chiacchierato, mangiato, giocato a carte, preso un aperitivo (diciamo due), camminato, raccontato.
La Manu ci ha portate in Australia, in Irlanda e a Milano, la Fra a Barcellona e a Parigi, io non ci ho ho portate da nessuna parte ma va bene lo stesso, avevo comunque le mie cose da dire.

Ieri è stata una bellissima giornata, ma stamattina mi sono ugualmente svegliata alle 6.30.
Sono rimasta un po' lì, mi sono guardata intorno nella penombra e nell'afa prematura e, alla fine, in preda all'ansia, sono uscita a correre. Poi sono rientrata, doccia e via di nuovo alla ricerca di non so bene cosa...gelato, spesa e casa.
Ho riordinato un enorme mucchio di documenti mettendo (quasi) il punto alle due settimane di folli pulizie sull'Albero, ho preparato il Leggermente di Agosto, ho cercato (invano) di arginare un ematoma sulla caviglia. Intanto lo so, se continuo a correre con 35 gradi all'ombra mi scoppiano i piedi. Lo so e lo continuo a fare.
Quindi, ricapitolando, è periodo di agitazione. Un'agitazione di un'inutilità imbarazzante peraltro. Basterebbe smetterla di pensare ai se (se non andrà bene, se mi rifiuteranno, se diranno di no, se finiranno i soldi, se non servirà, se starò male, se mi pentirò) e ai ma (ma come faccio, ma così non va bene, ma è troppo rischioso, ma se poi mi mandano a fanculo, ma siamo matti) e rilassarsi. Basterebbe.
Per provare a farlo leggo e scrivo, come al solito, cerco di essere una buona figlia, una buona amica, una buona persona. E compilo elenchi infiniti che mi terrorizzano a morte.
Stasera però no, stasera vi dico quello che questa estate mi sta insegnando, quello che ho imparato in due mesi di caldo maledetto e alternanza bipolare mare/città:

1) Ho imparato a mangiare i pomodori. Sembra assurdo ma mi hanno sempre fatto gola quanto, nella pratica, mi hanno sempre fatto schifo. Ora, a poco a poco, partendo da quelli piccolissimi, ce la sto facendo.

2) I miei vicini si amano. Maschi con femmine, femmine con femmine, di giorno e di notte, si amano e lo dicono a tutti. Ruggendo. Ma io sono contenta per loro, se non fosse che mi sveglio con la stanza a tremila gradi e un soft (neanche tanto) porno in dolby surround che invade tutto il vicolo. Ma si sa, all'amor non si comanda (e meno male).

3) Riesco a correre per più di mezz'ora senza sfiancarmi. Non è nulla di che, lo so bene, ma è comunque una piccola conquista (non fosse per le vene delle caviglie).

4) I vicini che non fanno sesso cantano. Di merda.

5) Buttare via tutto è propiziatorio. Ho messo a soqquadro casa e ho gettato decine di sacchetti di vestiti, barattoli, rifiuti, documenti, oggetti. Non ho eliminato nemmeno un libro e non ne avevo dubbi. Ho costruito collane con vecchie perline, ho assemblato porta gioielli con materiali di recupero e riordinato cassetti, armadi, pensili e ceste. Prima però, ho buttato via tutto.

6) Ho imparato (ma questa è più che altro una conferma) che i progetti fotografici, che siano miei o di altri, mi piacciono un botto. Qui trovate le mie #11cosebelle per L'inventore di mostri e se scorrete la gallery scoprirete che le sto pure fotografando.

7) La cioccolata fondente ha più calorie di quella al latte. Persino di quella bianca. MA STIAMO SCHERZANDO.

8) Ho superato una crisi di fibromialgia senza fare niente. Zero farmaci. Zero medici. Un po' di osteopata, mare e nuoto la mattina presto, coraggio.

9) Ho rivalutato la musica italiana. Gli stessi pochi autori che ho sempre ascoltato eh...ma quest'anno di più. Com'è profondo il mare su tutte.

10) Sono brava, bravissima, a tenere un segreto. Ero capace a otto anni, lo sono ancora a 33.

Ora film, acqua fresca, canotta e luce spenta.


P.S.
La foto arriva dritta dritta dal Leggermente che ho scritto per Cindy (libro del mese: Alta fedeltà di Nick Hornby)

sabato 1 agosto 2015

Summertime Sadness

Colonna sonora
Qui a casa di mamma lo studio è tappezzato di fogli. Poesie, aforismi, testi di canzoni, stralci di libri, citazioni.
Ieri sera, da una famosissima poesia della Szymborska, ho agganciato con gli occhi questa frase: "so che finché vivo niente mi giustifica, perché io stessa mi sono d'ostacolo" e ho pensato che è proprio così. Non credo di essere l'unica, beninteso, che boicotta i propri successi, che affonda speranze e illusioni, che davanti a qualcosa che funziona mette sempre quello che non riesce. Però ecco, questa frase pinzata per caso, in una sera più difficile di molte e più semplice di tante altre, mi è rimasta in mente perché nel mio cervello si collega in un lampo ad un'altra frase, che non conoscevo, e che un mio caro amico mi ha detto qualche giorno fa.

Nadie me quita lo bailao
Nessuno può toglierti quello che hai ballato


Lì per lì ho pensato che fossero poche parole, rivoluzionarie. Poi ho scoperto che è un modo di dire sudamericano molto comune, e che il senso è proprio quello che salta all'occhio alla prima lettura. Anche se le cose vanno male, nessuno può toglierti quello che è andato bene. Ciò che hai ballato.
E così ho "deciso" (quando mai riesco a decidere qualcosa ed alimentare un pensiero positivo per più di, diciamo, ventiquattro ore?) che una buona idea potrebbe proprio essere quella di voltarmi a riguardare i miei vecchi balli e provare a proiettarli nel futuro. Se c'è un momento che non va, se vivo un periodo immobile, di quelli che odio e che sembrano ricordarmi costantemente in che razza di palude io mi sia cacciata, posso sempre immaginare quanti altri balli mi aspettano. Perché anche nelle circostanze più difficili ci siamo rialzati, più o meno tutti, e abbiamo ricominciato a danzare.

Mentre scrivo penso a questi giorni appena trascorsi nel dolore fisico, che prepotente (e per nulla imprevedibile) si è fatto strada a ridosso delle ferie, non appena ho provato a fermarmi e a dedicarmi a quello che preferisco (camminare, scrivere, leggere, fotografare, guardarmi intorno).
E poi penso all'autunno in cui potrebbe cambiare tutto o non cambiare nulla, con enormi conseguenze in entrambi i casi.
Penso al mare che sta a duecento metri da questo pc e alle nuotate che voglio concedermi non appena tornerà il sole.
Penso alle corse che mi regalo ogni giorno e che mi fanno stare bene.
Penso alla passeggiata di questa mattina, in totale solitudine, sotto una pioggerella leggera, costeggiando l'acqua fino al piccolo cimitero lassù, per un saluto veloce.
Penso a chi si trova esattamente dove vorrebbe essere e a chi invece ha davanti a sé settimane e mesi difficili.
Penso alle vite che dondolano nelle pance delle mie amiche e ai viaggi di nozze che stanno per iniziare.
Penso alle mille commissioni che ho già sbrigato e a quelle che mi attendono la prossima settimana.
Penso al corso di francese che comincerà a settembre e che dovrò incastrare con i laboratori per il bando che ho vinto, prima che inizi il Festival e prima che il mio cervello venga assorbito dall'enorme disagio che quel periodo si porterà con sé, come ogni volta.
Penso a ciò che mi spettava e che non mi è stato dato. E questo pensiero, nuovo e sconosciuto, mi fa inorridire.
Penso che potevo essere meglio, ma anche molto, ma molto peggio.

Termino questo post e vedo che sta proprio qui l'errore, che qui è tutto sbagliato. L'elenco che ho appena scritto è un inno al non farcela e al concentrare pensieri, forze e attenzioni su mille cose tranne che sul qui e ora. Ma io non lo so fare. Il mio qui e ora non mi piace. Magari il qui e ora che ci sarà tra cinque minuti sì, ma questo proprio no.