venerdì 29 aprile 2016

Thismustbetheblog #7: Flamingo Bergamo

Ci siamo, è giunto il momento di un Thismustbetheblog. Per chi capitasse qui da poco o magari addirittura per caso, per la prima volta, ecco di cosa sto parlando; potete trovare le altre sei puntante sparse qua e là nel blog.
Questa volta è toccato a un posto che avevo nel cuore da molto, moltissimo tempo, ma che non ero mai riuscita a raggiungere. Quel posto è Flamingo Bergamo, un incanto che non si può descrivere a parole ma bisogna andarci di persona, perché le ragazze che lavorano lì sono adorabili e tutte le foto che vedete sui loro profili Instagram e Facebook sono vere al 100%.

Sono partita la mattina presto con mamma e rientrata in serata, ma sono riuscita non solo a girovagare beata a Bergamo bassa (compresa, appunto, una lunghiiiisssssima sosta da Flamingo), ma anche a salire in città alta dove abbiamo pranzato e visitato, finalmente, l'orto botanico. Questo posto merita un paio di battute solo per lui: è piccolo e curatissimo, ricco di specie diverse e, soprattutto, di alberi che io non avevo mai visto prima e che mi hanno stregata, uno in particolare è l'albero dei fazzoletti.
Ci sono salvie di tutte le dimensioni e colori, piante acquatiche e aromatiche, tulipani lisci e frastagliati, bianchi e neri, maggiociondoli in crescita, viburni che così belli proprio mai, aquilegie di mille tipi differenti.

Il motivo per cui ho parlato un poco anche dell'orto e ho scelto una bella peonia (color fenicottero) come foto, sta nel fatto che Daniela, la proprietaria del negozio, mi ha detto di amare molto i fiori e mi sembrava carino associare il post che racconta di lei a qualche storia fiorita.
Tornando dunque alla mia sosta da Flamingo Bergamo non posso esimermi dal mostrare cosa ho acquistato (dopo numerosi ragionamenti fatti a casa guardando il sito e cento prove in camerino):

- I pantaloni con le giraffe di King Louie (e c'è mancato poco, pochissimo, che non mi portassi a casa anche l'ennesimo vestito)
- Tre magliette di Alternative apparel (bianca, verde acqua e nera) perché corrispondono esattamente a quello che stavo cercando per diversi motivi, uno su tutti lo spiegherò alla fine del post
- Una candela immorale (la chiamo così per il prezzo, non sono proprio abituata a candele costose ma la volevo provare da tanto e il profumo che lascia, la durata, la bellezza della confezione mi hanno convinta della scelta)
- Un mazzetto di incensi al palo santo (che sono stati un regalo molto gradito e che mi hanno dato un pretesto per scoprire qualcosa di più su questo albero)
- Un regaletto che non posso svelare, sia mai che il destinatario legga il post e capisca tutto

Poi, mi hanno pure donato una bellissima tazza, ma ve l'ho detto che le ragazze sono proprio carine!

Per concludere voglio motivare ulteriormente la mia scelta di spararmi quasi otto ore di treno per comprare qualche vestito: sono andata a Bergamo il 23 aprile, durante la settimana dell'acquisto consapevole di capi d'abbigliamento, quella cosa che in questi giorni vedete ovunque sotto il nome di Fashion Revolution Day, con lo slogan "Who made my clothes?". Da qualche tempo sto modificando radicalmente il mio modo di vestire, sulla base di una scelta etica dettata dalla chiaramente insostenibile situazione in cui si trova la produzione di abbigliamento. Non sono una grande esperta ma mi sto documentando molto e persone come Vendetta Uncinetta o Marina Spadafora mi stanno decisamente aiutando in tal senso. Ho visto, come molti, il documentario The True Cost e, soprattutto, mi sono lasciata tormentare da una domanda: perché è stato ed è semplice prendermi cura della mia alimentazione, scegliendo prodotti sostenibili dal punto di vista ambientale, mangiando da onnivora ma cercando di non comprare cibo di derivazione animale non certa, privilegiando il km0 ogni volta che posso e, invece, non è così facile cambiare abitudini nell'acquisto dei vestiti? Perché non è immediato eliminare la fast fashion dal mio modo di comprare? Temo che molto dipenda dal fatto che un cibo buono, genuino, scelto con attenzione mi regala un benessere evidente ed immediato, mentre un paio di pantaloni che costano quattro volte di più di quelli comprati in un negozione a 29.99 euro non mi dimostrano altrettanto in fretta il loro valore. Vedo il prezzo alto e non penso granché al resto. Le mie scelte, ora, sono molto più ragionate, i marchi che ho acquistato da Flamingo dichiarano pubblicamente (anche sul sito) il loro impegno ambientale e umano e ora nel mio armadio ci sono alcuni capi nuovi che sono certa mi dureranno di più (se non altro perché li tratterò con maggiore cura) e che si mescoleranno con i vestiti vintage che compro regolarmente da quando andavo al liceo.
Io, ve lo dico, mi sento molto meglio.

venerdì 22 aprile 2016

Una ragazzina sull'Albero

L'unico selfie a cui abbia mai aspirato è di legno ed è una Myselfie: una delle ragazzine di Rita.
Rita lo sapete tutti chi è, ma se non lo sapete Rita è lei e vi consiglio di seguirla anche su Facebook e su Instagram, perché i suoi profili sono pura poesia, come i suoi capelli celesti.

Il mondo di Faccio e Disfo (che poi io non ho mica ancora capito cosa disfi, fa di continuo ed è tutto perfetto!) è un universo parallelo posizionato esattamente tra voi e la vostra infanzia, tra il gusto che avete adesso e la fissazione intramontabile per quaderni, penne e righelli per fare le cornicette con le onde.
Questa ragione, questo filo diretto con la me di trent'anni fa, insieme alla decisione di smetterla di sbavare sullo shop on line del Cottage, mi ha portato a ordinare una Myselfie e una Secret Bag, battendo le mani velocissime non appena è partito il bonifico.

La decisione finale l'ho presa una sera di idee e immaginazione, mentre cercavo di capire come mettere in pratica un progetto e mi servivano dei timbri con cui scrivere, delle lettere minuscole da usare con inchiostro nero e colorato sui quaderni che ho costruito da Papê l'anno scorso. Ho navigato un po' on line e voilà, sul sito di Rita ho scoperto che c'era una scatoletta di legno (meravigliosa) piena di timbri (meravigliosi) che aspettava solo di essere ordinata.
Come è andata poi? Poi è andata che volevo aggiungere qualcosina per ammortizzare le spese di spedizione e mi sono detta: "Perché non ti regali, finalmente, una Myselfie?". E quindi, alla fine della favola come si dice qui a Genova, ho comprato tutto, timbri, collana e sacchetto di stoffa (meraviglioso) pieno di sorprese (meravigliose) scelte dai figli (meravigliosi) di Rita, meravigliosa pure lei, che ve lo dico a fare!

Ho compilato il form sulle mie caratteristiche affinché la ragazzina arrivasse davvero somigliante a me, ho aspettato giusto il tempo che le mani artigiane di Rita la confezionassero ed è arrivata. Non ho potuto ritirare io il pacco, ma non ho saputo resistere e ho chiesto a chi lo aveva preso per me di scartare qualche busta e mandarmi le foto. La Myselfie ha commosso tutti, grandi e grossi compresi.
Perché sono io, senza se e senza ma. Ha i capelli carota, la maglia a righe, le scarpe da maschiaccio e una foglia in mano... che altro?

Ora, come in ogni post haul (è così che si chiama vero?) che si rispetti di ogni blogger che si rispetti, vi elenco tutto quello che ho trovato nel sacchetto del Cottage, partendo dalla foto quassù in rigoroso ordine sparso.

- Sei penne (non quattro, non cinque... sei!) a fiori con la punta tipo tratto-pen: ogni penna ha un piccolo pois del colore del suo inchiostro disegnato sul tappo, per sapere sempre come si scriverà
- Una matita a scatto sottile e leggerissima, perfetta per non appesantire la borsa (inutile che vi dica che io, nella mia borsa, ho messo tutto, noncurante del peso perché CERTAMENTE mi servirà ogni sfumatura di colore)
- Due taccuini verticali, che più romantici di così non credo sia possibile (i fogli all'interno sono liberi da righe o quadretti e sono di una carta paglia bellissima)
- Cinque bustine d'altri tempi, per mandare auguri, amore, foglie secche
- Il sacchetto del Cottage, in stoffa grezza, perfetto per la biancheria quando si viaggia (o per le scarpe se a scuola c'è ginnastica :-) )
- Un timbro a forma di orologio con relativo inchiostro rosso
- Il famoso righello con le onde per fare le cornicette
- Il quadernino di Veronica
- La scatola di legno vintage con le lettere minuscole da timbrare
- Il taccuino ufficiale del Cottage, capiente e utilissimo
- La Myselfie con il suo certificato di autenticità
- Gli adesivi, perché Rita è furbissima e sa che aprendo i mille pacchetti contenuti nel sacchetto il chiodo fisso è non rompere gli adesivi chiudipacco. Impossibile: si rompono tutti e lo struggimento è a mille. Rita lo sa e ti fa trovare una confezione di piccoli adesivi botanici (e non solo), intatti, all'interno della Cottage Secret Bag.

Prima di chiudere questo lungo post c'è un'ultima cosa che vorrei dire sull'ordine che ho fatto a Rita: dovevo farlo prima.



sabato 16 aprile 2016

Basta rimanere in silenzio

Inteso come "è sufficiente stare in silenzio".
Avviso già che questo sarà un post ad alto tasso di giudizio e di profonda condanna per le persone che giudicano. Insomma, un controsenso assoluto.

Ho ricevuto un'educazione parecchio rigida, dovuta a un'età non giovanissima dei miei (per l'epoca, s'intende, ora sarebbero considerati dei genitori-bambini) e a una zona di crescita geograficamente più propensa alla chiusura. Per intenderci, sono nata in campagna e quando ho traslocato, a inizio adolescenza, sono andata a vivere in un posto servito da un autobus ogni ora e zero treni per raggiungere il primo centro (realmente) abitato. Avevo orari ferrei per tornare a casa, sono potuta rientrare dopo la mezzanotte solo poco prima dei diciotto anni, sono andata in vacanza con gli amici da sola per il Capodanno del duemila, tre giorni prima di diventare maggiorenne, con grandissimo disappunto di mio padre.
Me lo ricordo ancora:
Mamma: "Giancarlo, dai, compie gli anni il 3 gennaio..."
Papa: "Lo so, quindi ora ha 17 anni e decido io."
Ha vinto mamma, ma che sudata!

Ho fatto le mie cazzate, più o meno gravi, più o meno irrisolvibili. Ho fatto piangere i miei, pochissime volte, ma l'ho fatto. Li ho sicuramente preoccupati, soprattutto nell'età critica tra i 14 e i 19 anni, poi mi sono calmata e la vita ha fatto il resto, provando ad ammazzarmi e riuscendo ad ammazzare mio padre.

Ho abitato fino ai 28 anni con un'insegnante, che di rigore e disciplina se ne intende assai e di genitori di merda pure.
Ho studiato tutto quello che ho potuto studiare, ho lavorato in tutti i campi che mi sono capitati, sono stata (e sono) in analisi, ho vissuto relazioni quasi sempre lunghe e importanti, ho preso facciate medio-brutte, ho avuto parecchio paura di non farcela da sola.

Mio padre era una persona complicata, soprattutto per se stessa, e di conseguenza per gli altri. Il mini paesino in cui sono diventata adulta è un posto meraviglioso ma davvero difficile, se si è deciso di avere una vita. Ringrazierò sempre mia madre per avermi accompagnata a prendere il treno mille volte e la mia pazienza infinita per aver atteso ore autobus in perenne ritardo (e che spesso non arrivavano proprio).

In tutta questa fatica, che per me è sempre stata normale routine (e questo, fortunatamente, è un bagaglio di inestimabile valore, che mi fa sopportare e supportare scioperi e disagi cittadini senza fare rumore), io non mi sono mai sentita giudicata male. Né dalla mia famiglia (intesa come mamma e papà) né dai miei vicini più stretti. Quando ho iniziato a percepire che per me era il momento giusto me ne sono andata, consapevole che le cose cambiano, diventano altro, spesso peggiorano a causa del mondo che va avanti e non possiamo fare nulla, se non accettarle.

Non sempre mia madre e mio padre hanno apprezzato le mie scelte, mio padre a volte nemmeno le ha viste, preso com'era dalle sue difficoltà. Di certo non si sono mai permessi di farmi sentire sbagliata per quello che ero e che volevo fare.

Ora, sempre più spesso, non faccio altro che trovare cattiveria e soprattutto giudizio in tutte le persone che incontro. Sia chiaro, giudicare giudichiamo tutti, chi più chi meno, ma giudicare sempre e comunque... quello no, non lo capisco.
Non ne comprendo la necessità, non ne vedo lo scopo, il tornaconto, in particolare quando si tratta di parentela, di genitori-figli e figli-genitori. Le scelte di un figlio sono le sue, lo sono quando ha tre anni come quando ne ha trenta, con la differenza che a tre anni è compito di un genitore guidare il bambino nella scelta meno pericolosa, più "buona" per lui e per la sua salute; non necessariamente per la sua felicità, perché un errore che ci rende un po' tristi non ho mai pensato sia un dramma, piuttosto credo possa diventare un insegnamento. Se questo è il ruolo di una mamma e di un papà quando il figlio ha tre anni figuriamoci quando ne ha trenta e prende decisioni autonome e personali, come deve essere. Magari sono scelte distanti da quello che ci si aspetta, a volte sono opposte, ma non capirò mai cosa spinge un genitore a giudicarle, giudicarle e giudicarle ancora. Comprendo di più il taglio netto, la presa di posizione definitiva. Il giudizio perpetuo e sfiancante, per chi lo dà e chi lo riceve, proprio non lo capisco.

Questo discorso vale anche per gli amici, che si trattano male, si disprezzano in (nemmeno troppo) segreto e continuano a cercarsi non si sa bene perché, o per i conoscenti che sorridono in loop e intanto pensano le peggio cose possibili sul conto della persona a cui hanno rivolto un gioioso quanto falso saluto. Si fanno scelte, si hanno idee e sentimenti, si prendono posizioni. Non mi pare né difficile né sbagliato.

Prima di tutto questo, però, credo che basterebbe rimanere in silenzio davanti alle decisioni altrui, perché più spesso di quanto crediamo nascono da un vissuto che non abbiamo non solo nessun diritto di giudicare, ma probabilmente nemmeno di provare a capire. Possiamo solo rispettarlo, stando zitti.

martedì 12 aprile 2016

Chi si ferma è perduto

Non c'è proprio verso, di farmi stare ferma.
Se non è una camminata è una passeggiata, se non è una corsa è una maratona fotografica.
Ecco quindi quello che ho fatto domenica scorsa: per la prima volta in vita mia ho partecipato all'Italia Photo Marathon, nella sua tappa genovese, e mi sono divertita moltissimo.
Devo ammettere che il livello di stanchezza finale era paragonabile a quello di una qualsiasi giornata di trekking, dopotutto abbiamo vagato per la città dalle 9 alle 18, un po' di male ai piedi credo fosse più che giustificato!

Come si svolge questa cosa della maratona? Così:
Ci si riunisce tutti in Piazza De Ferrari (eravamo più di mille, un esercito), ci si registra (io avevo già effettuato l'iscrizione on line, ma occorre comunque fare la fila per essere assegnati a un numerino e ricevere maglia e zainetto) e si attendono i primi tre temi sui quali basare altrettanti scatti.
La "chiamata" dei temi viene ripetuta altre due volte nel corso della giornata, per un totale di nove argomenti chiave. Ogni tappa prevede la consegna di un cartoncino con su scritti i temi, ma in realtà è un'ottima occasione per riposarsi un momento.
La bellezza di vivere in centro storico è stata anche la possibilità di passare un attimo da casa e sfruttare al massimo gli anziani del quartiere per chiedere consigli sui luoghi più adatti dove scattare fotografie. Via di corsa sulle mura del Barbarossa, o sulla collina di Castello, un salto al mio amatissimo chiostro e mille giri tra vicoli, spicchi di cielo, reti arrotolate, alberi cittadini, riflessi potenti e strade puzzolenti.

I temi scelti quest'anno sono:
1. Il mio regno
2. City life
3. Punta in alto
4. Che combinazione!
5. L'ingrediente segreto
6. Goccia di splendore
7. Cosa c'è dietro
8. I Rolli
9. La voce del mare

Non è stato affatto semplice trovare l'ispirazione, soprattutto in alcuni casi. I Rolli per esempio, così tanto fotografati, visitati da poco, quasi tutti chiusi mi hanno dato un bel po' di filo da torcere, fino a che un vicolo buio, un punto di vista diverso dal solito, e una coppia di colori super saturi hanno risolto la situazione.
Certi temi, invece, mi sono arrivati addosso all'improvviso, come Punta in alto o Che combinazione!, due scene inaspettate che sembravano non attendere altro che essere immortalate.
Credo che presto verranno caricate on line le foto di tutti, suddivise per profilo o per tema, non lo so, magari metto il link nel prossimo post. Di sicuro consiglio a tutti gli appassionati di fotografia di non perdersi questo evento perché è un'occasione per camminare tanto e imparare a guardare la propria città con un occhio nuovo.


domenica 3 aprile 2016

La straniera


Erano anni che il cambio di stagione non ci andava giù così pesante.
Pure il passaggio dall'ora solare a quella legale non credo abbia aiutato.
Se poi ci aggiungiamo una settimana di antibiotici per scongiurare ipotetici morbi da puntura di zecca completiamo il disastroso quadro di stanchezza tremenda, sonno boia, stato confusionale semi costante.
Un esempio?
Ieri ho perso gli occhiali da vista. Stavo passeggiando in pieni Rolli Days e sono tornata alla polleria dove avevo pranzato, per controllare se magari li avessi dimenticati lì. Il locale era pienissimo, ho chiesto al ragazzo dietro al bancone se li avessero visti e lui, sorridendo, mi ha risposto:
"No cara, ma sai, noi non siamo mai usciti da qui, prova a vedere dove eri seduta. Però, non è che per caso sono quelli che hai appesi al collo, vero?".

Capito?
Non ce la posso fare.


In tutto questo lavorare, alzarsi, comunicare, spedire, scrivere, inviare, rispondere, accontentare, parlare, dire, fare, (baciare, lettera, testamento) io mi sento una straniera.
Come se non sapessi bene dove sono, né come esprimermi affinché gli altri mi capiscano. Il più delle volte, tra l'altro, mi pare di non comprendere io stessa quello che gli altri cercano di dirmi.
E non parlo solo di sconosciuti, persone appena incontrate sul mio cammino, nuove opportunità che si palesano all'improvviso: intendo anche gente che frequento da tipo dieci, dodici anni e che, di colpo, sembra parlare swahili.

Come sto cercando di ovviare al problema?
Facendo paragoni.

Il primo mi sta aiutando moltissimo ed è legato al corso di francese che seguo ormai da settembre. Ora che mi dedico alla conversation (da pronunciare rigorosamente alla francese) e che trascorro mattinate intere a mettere insieme frasi apparentemente insensate ma a volte incredibilmente corrette, ho capito perfettamente cosa significhi essere straniera, e tentare di integrarsi. Provo grande gioia quando, per esempio, riesco a tradurre mentalmente ciò che due turisti francesi si stanno dicendo in un negozio... la stessa felicità la sento quando capisco chi si rivolge a me in italiano ma sembra parlare un'altra lingua. Non solo, spesso mi sento più compresa balbettando in francese a lezione che dialogando in italiano nella vita di tutti i giorni.

Da cosa dipende tutto questo? Da me, ovviamente. Anche perché tutto (o quasi tutto) ciò che affrontiamo ci colpisce in modo diverso a seconda da come lo vediamo. Io non voglio arrabbiarmi, non voglio farmi mangiare dal nervoso, non voglio che mi capiti una volta a settimana nella stanza gialla, tanto meno voglio che succeda nella vita quotidiana. Quando mi accorgo che non c'è via d'uscita, che proprio non capisco un comportamento, una frase, una mail, un'azione e che non so assolutamente come comportarmi di conseguenza... divento francese. Oplà.

Il secondo paragone che uso (questo lo faccio da sempre e dopo ieri ancora di più) è legato alle piante che vivono in città, nate nella fessura di un muro, in una crepa sull'asfalto, tra i mattoni di un molo. Ieri ho partecipato a una passeggiata alla scoperta della biodiversità urbana e ho finalmente imparato alcuni nomi di coraggiosissime piantine resilienti, incontrandole qua e là tra automobili, turisti, barche e ringhiere. Le ho fotografate, catalogate sul mio taccuino e ammirate infinitamente per la loro pazienza. Ce ne sono alcune che si fingono morte nei periodi duri e ripartono più forti che mai appena il clima lo consente. Sono così avanti, in un ambiente in cui probabilmente nessuno le capisce, dove non ci sono alberi a proteggerle, uccelli e insetti a visitarle, acqua fresca a dissetarle, che non hanno nemmeno bisogno di diventare francesi per farcela.

Quale migliore esempio?
Io non voglio arrabbiarmi, voglio fiorire timida ad aprile trasformandomi in un sedum (francese).